“E se nei vostri quartieri
tutto è rimasto come ieri,
senza le barricate
senza feriti, senza granate,
se avete preso per buone
le “verità” della televisione
anche se allora vi siete assolti
siete lo stesso coinvolti.”
Canzone del Maggio, Fabrizio De André
E’ necessario che passi un decennio prima che, nel maggio del 1978, l’Italia uccida con Aldo Moro, “il meno implicato di tutti”, ogni desiderio e spinta vitale, e seppellisca, insieme al suo corpo, la coscienza di una stagione inedita sotto l’inavvicinabile etichetta di “anni di piombo”.
A un cinquantennio di distanza, del periodo di storia politica nazionale accesosi – in incubazione già da qualche anno nelle università italiane – nel ’68 in seguito ai fatti di Valle Giulia, dove quattromila manifestanti si unirono contro le forze di polizia che avevano fatto sgomberare La Sapienza occupandola, si ricordano tuttalpiù lotte armate, stragi, terrore. Ma lontani, corpi estranei, figli disertori di una Repubblica che non vuole riconoscerli per illudersi giusta, senza macchia; il paradosso è l’istituzione di un tabù al di sotto del quale soccombe anche e soprattutto ciò che di buono fu fatto nel tentativo di decostruire quanto di preconcetto per rifondare, o fondare forse per la prima volta, il diritto alla libertà, libertà in primis di informazione, opinione ed espressione, mentre l’omertà non ha mai smesso di fagocitare crimini.
L’Articolo 18 in difesa del posto di lavoro, la Scala mobile, la Legge sull’aborto sono solo alcune delle conquiste di quegli anni; che ci vengano da uomini e donne, “studenti e operai uniti nella la lotta”, che le pagarono con la vita in nome di un ideale di vita, voluta fortissimamente giusta e dignitosa, oggi non se ne ha memoria.
A restituirla, una memoria emozionata e sognante, lontana da qualsiasi istituzionale ricostruzione documentaria, con il fascino così come l’evidenza dei rischi che tale operazione comporta, non può che essere un outsider, per scelta prima che per obbligo – più e più volte censurato – fuori dall’industria cinematografica, dentro il Cinema.
“Il cinema per voi è evasione,
per me è una visione del mondo.
Il cinema è un atleta
Il cinema è portatore di idee
Il cinema svecchia la letteratura.
Ma il cinema è malato
l’Industria gli ha gettato
negli occhi una manciata d’oro.
Abili imprenditori con storie
lacrimose o violente
ingannano la gente.”
Vladimir Majakoskij
Silvano Agosti fonda la propria vita – ché il cinema non è lavoro – su questo mantra.
E’ una militanza, la sua, che, prodotto di un tempo determinato, si spinge al di là del tempo, interpretando quello presente con la lucidità di chi, schierato, ne resta fuori pur sempre vigile, pronto a ravvisarvi le tracce di un auspicato ritorno della Storia.
Non c’è occasione in cui Silvano – “Agosti chi è? non l’essere umano” – si esima dal riferire quella che è stata per lui la fortuna più grande: non essere andato a scuola durante l’infanzia, avere avuto la possibilità di sapere come solo sa un bambino, quindi esserlo rimasto.
“Ora e sempre riprendiamoci la vita”, già ospitato a Locarno prima di uscire nelle sale, non è che conferma ennesima di un purissimo sguardo sul mondo che spiazza occhi “scolarizzati”, per nulla avvezzi al coraggio di prendere posizione, cinici quando non semplicemente svogliati, inerti.
Ancora una volta senza troupe, senza produttori, senza distributori, il regista dà forma al suo film attraverso un lungo, meticoloso montaggio tra immagini d’archivio girate anche in prima persona e interviste ai protagonisti delle stesse: prestandosi qui a rinarrarle, le loro voci contribuiscono a renderne la lettura che ne dà Silvano, tanto grandiosa quanto parziale, visionaria o ciecamente nostalgica a seconda dei punti di vista.
Convinto che la portata del decennio ‘68/’78 sia paragonabile a quella delle rivoluzioni francese e russa, ne riassembla i fatti sì cronologicamente, ma non in modo cronachistico. La cernita è quella di chi l’innamoramento collettivo di cui parla Mauro Rostagno in testa al film l’ha vissuto dall’interno, propulsivo, illuminante fino ad essere abbacinante.
Rostagno, tra i leader del movimento studentesco, vent’anni dopo ucciso dalla mafia, altre volte ancora dalla politica; Bernardo Bertolucci, che voleva liberare le facoltà, e il mondo; Franco Piperno, fondatore di Potere Operaio, cinquantasei i capi d’imputazione da cui fu poi assolto; i lavoratori di Porto Marghera e quelli partecipanti alle prime assemblee Fiat; Franca Rame, sostenitrice insieme a Dario Fo del controverso Soccorso Rosso, stuprata e torturata barbaramente da un gruppo di neofascisti; e poi loro, vittime anche quando reduci da Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Italicus.
Questi ed altri, questi e non altri, i volti che corrispondono al Sessantotto di Silvano, contro il Potere non per il potere politico, più di tutto per la pienezza della vita, la voglia di sperare, sognare o scegliere di non voler sognare affatto.
Partiti e sindacati non seppero mai interpretare tanta autentica intenzione sovversiva, i suoi animatori finirono per ammutinarsi di ritorno.
All’età di ottant’anni il regista bresciano ne è convinto: il fiume scorre per ritornare a galla irriconoscibile eppure identico, non fosse che per inabissarsi di nuovo. “Ridivertiamoci”, ma come? Se nel 1967 Il giardino delle delizie intercettava le ansie del tempo precorrendone i risvolti nel conflitto tra convenzioni sociali e rapporti umani, Ora e sempre riprendiamoci la vita arriva meritoriamente a rischiarare un buco nero la cui presa sull’oggi appare però relegata alla sfera dell’utopia. Restano allora, tangibili tra le altre, quelle di Clara Sereni: dove sono le figlie di quelle madri che danzavano intorno ai falò?