giovedì, Dicembre 26, 2024

Slender Man di Sylvain White: la recensione

A costo di passare per bacchettoni, del fenomeno “creepypasta” ci interessa quanto del passaggio di testimone a “La prova del Cuoco”, considerazioni “virali” sullo share annesse. La versione connettiva della leggenda metropolitana cambia in virtù dei dispositivi di condivisione di massa e diventa un fenomeno che perde progressivamente di efficacia, rispetto alla nobilissima tradizione delle storie a veglia, serbatoio fondamentale per comprendere il carattere di un popolo e buona parte della cultura quotidiana ottocentesca, passioni e superstizioni incluse. Dubitiamo che tra un centinaio di anni le numerose sciocchezze che circolano adesso in rete, saranno capaci di raccontarci con la stessa forza la mutazione antropologica di intere generazioni, semplicemente perché nelle continue ri-mediazioni dello stesso materiale, il dispositivo ha sostituito l’incertezza vitale del racconto orale, favorendo un sistema combinatorio inquietante che ci porta forse più vicino al futuro delle intelligenze artificiali e all’autoritarismo delle catene di spam, che alle possibilità degli ipertesti collettivi. Desertificazioni e analfabetismi funzionali a parte, dal fenomeno sono nate alcune riflessioni stimolanti e qualche narrazione sopra la media, come per esempio la prima serie di “Channel Zero” diretta dal promettente  Craig William Macneill, che parte da alcune di queste storie per analizzare lo collisione tra psiche e immaginario, con un lavoro di scrittura di un certo spessore. Quando la rete torna al centro, a 17 anni di distanza da “Kairo” di  Kiyoshi Kurosawa e “All about Lily Chou Chou” di Shunji Iwai, la maggior parte delle volte non si riesce ad andare oltre, attraverso prodotti dozzinali che solleticano la curiosità degli spettatori giovani, semplicemente mimandone le attitudini più evidenti. 

Il meme diffuso da Eric Knudsen attraverso i forum di Something Awful ha popolato una pletora di “online fictions”, fino al suo ingresso nel mercato attraverso numerosi videogames e altre forme di narrazione. Del tutto accessoria l’origine di Slender Man per la versione cinematografica diretta da Sylvain White, perché che si conoscano o meno i natali dell’uomo senza faccia, dall’enorme statura e con le mani che sembrano il prolungamento dell’habitat boschivo da cui si manifesta, il prodotto non cambia. E di prodotto dai facili incassi deve aver ragionato la Screen Gems sulla scia della popolarità contagiosa della storiella. Nel film rimane tale e non scava nelle ossessioni comuni e in quel prolungamento motorio della coscienza che sono diventati i dispositivi di comunicazione più diffusi. 
Si parte da un presupposto visto molte volte nelle produzioni cinematografiche internazionali sin dai primi anni del nuovo millennio, fino a quelle più dozzinali benedette da Jason Blum, senza il coraggio di realizzare un film nè teorico nè selvaggio. 
Un insieme di luoghi comuni sulla rete, il suo abuso e il consueto peek-a-boo che emerge dai recessi di internet per punire gli utenti più curiosi, in questo caso quattro ragazzine che rientrano a pieno titolo in quella schiera di coetanee il cui modello non viene aggiornato, ormai da decenni, rispetto a quello de “Gli occhi degli altri”, per come si era divertito a immaginarlo quel burlone di William Castle. 
Il contatto con la rete in questo caso modifica la percezione, confonde il virtuale con il reale, penetra il mondo comune con il linguaggio di quello condiviso digitalmente. White approfitta di questa contaminazione per eccedere con manipolazioni digitali che sembrano una versione più dopata di quello che si può fare con alcune app che “aumentano” la percezione reale. Era più efficace il golfino di Freddy e nell’abuso di queste digitalizzazioni per rappresentare la psiche soggettiva delle sue protagoniste, si attinge dal database del luogo comune, scomodando Scott Derrickson e persino il Lynch di “Lost Highway”, con la ripetuta visione soggettiva di Slender Man attraverso lo schermo degli Smartphone.
Noioso, dal respiro cortissimo, regala qualche “Jumpscare”, per poi ritrarsi in un simbolismo didascalico che ha la pesantezza dei peggiori cautionary tale, quelli si davvero bacchettoni. 

 
Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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