Quale impatto possono avere politiche di contenimento demografico imposte con metodi totalitaristici sull’esistenza degli strati sociali meno salvaguardati e abbienti? Cosa succede a una famiglia del ceto operaio cinese se questa perde il suo unico figlio e non può averne altri per via di complicazioni causate da un aborto esercitato in nome della cosiddetta politica del figlio unico? Cosa mantiene unito un sistema sociale travolto dal mutamento politico ed economico?
A queste domande vuol dare una risposta il regista cinese Wang Xiaoshuai (*Shanghai, 1966) con il suo nuovo film “So Long, My Son” (titolo originale: “Di Jiu Tian Chang”). Si tratta di un lavoro coraggioso che riesce a coniugare epos familiare e critica sociale, trovando il suo punto d’equilibrio nell’approfondimento psicologico dei personaggi principali, interpretati da Wang Jingchun e Yong Mei, meritatamente vincitori degli Orsi d’Argento per il miglior attore e la migliore attrice alla Berlinale 2019.
Wang Xiaoshuai, anch’egli già vincitore di un Orso d’Argento gran premio della giuria con Beijing Bicycle, nel 2001, e di un Orso d’Argento per la sceneggiatura con In Love We Trust, nel 2008, ci racconta con “So Long, My Son” la storia di una coppia di operai cinesi, Liu Yaojun (Wang Jingchun) e Wang Liyun (Yong Mei), accompagnandone le vicende a partire degli anni ottanta, per un arco di tempo di circa trent’anni.
È così che il regista mette in scena, attraverso la “piccola storia” dei suoi protagonisti, la “grande storia” dei radicali cambiamenti socioeconomici che hanno investito la Cina nel passaggio dal socialismo di stampo maoista al “socialismo con caratteristiche cinesi” di Deng Xiaoping e, quindi, all’“economia socialista di mercato” di Jiang Zemin.
In particolare, degli ultimi tre decenni, sono tre i fatti politici e gli eventi economici che Xiaoshuai isola e intorno ai quali organizza la narrazione: l’applicazione a livello nazionale della politica del figlio unico, la privatizzazione di una grande parte delle Industrie di stato, con conseguente incremento del tasso di disoccupazione, e l’apertura della Cina all’economia di mercato, non più considerata come prodotto del capitalismo, bensì, al pari della pianificazione, da intendersi come una forma di regolamentazione economica non in contrasto con il socialismo.
Nel mezzo di questi profondi cambiamenti Liu Yaojun (Wang Jingchun) e Wang Liyun (Yong Mei) conducono una vita semplice e onesta, in una piccola città nel nord della Cina, sorta alle spalle di un complesso industriale. La loro casa è giusto una stanza in un dormitorio per operai. È lì che vivono insieme al loro unico figlio, Liu Xing. Questi è un bambino timido e riservato; il suo unico compagno di giochi è Shen Hao, coetaneo vivace e curioso, figlio di Shen Yingming (Xu Cheng) and Li Haiyan (AI Liya), una coppia di amici, anch’essi operai. Per via della “politica del figlio unico” imposta dallo stato, la maggior parte delle famiglie del luogo ha un solo figlio; è anche per questo che i due bimbi crescono come se fossero fratelli.
Tutto procede normalmente finché l’esistenza delle due coppie non viene sconvolta radicalmente allorché il piccolo Liu Xing annega in un bacino di contenimento di una diga, dove si era recato dopo la scuola insieme a Shen Hao. È il 1994 e, da quel momento in avanti, per Liu, Wang e i loro amici niente sarà più lo stesso.
Passano gli anni. Liu Yaojun e Wang Liyun ora vivono a Hou Wan, una città marittima della provincia di Fujian. La loro casa dà sul mare e funge al contempo da piccola officina navale. Hanno adottato un adolescente (Wang Yuan, vera e propria star nel modo degli influencers, con circa 69 milioni di followers sul microblogging cinese Sina Weibo) e cercano di riconquistarsi un’esistenza normale. Quando anche il figlio adottivo li lascia scappando di casa, i due cadono in una nuova crisi che farà riemergere i traumi mai superati dalla morte di Liu Xing. E, proprio quando i due si saranno ormai rassegnati a vivere un’esistenza spesa nell’attesa di diventare vecchi, subentrerà un nuovo evento che darà una svolta inattesa alla loro vicenda.
Wang Xiaoshuai, sceneggiatore e regista cinese della “sesta generazione”, con “So Long, My Son”, un film che, con le sue inquadrature nitide, un ritmo narrativo che sa dare spazio al silenzio e un montaggio che non vuole distinguere tra passato e presente, ci regala una storia che è al contempo semplice ed enigmatica. È la messa in scena di un’umanità etica che si propone come risposta possibile alle sciagure familiari e alle ingiustizie perpetuate da un sistema totalitario. Un’umanità etica che, tuttavia, pur dichiarandosi come soluzione, ammette a priori il proprio fallimento, la propria inadeguatezza.