Sofia dispone fin dai primi minuti i corpi dei suoi personaggi in un organigramma visivo che si apre alla lettura e che riassume (come meglio sa fare chi possiede controllo cinematografico) in immagini perfettamente decodificabili la vasta complessità della situazione sociale marocchina. Il film dell’esordiente Maryem Benm’Barek-Aloisi è sconvolgente per chiarezza di esposizione, lettura della sottigliezza del fatto politico e per la sensibilità in grado di cogliere un attimo preciso e di dilatarlo nella forma di un racconto. Operazione tutt’altro che semplice, perché legata alla descrizione ambientale di una realtà sociale e all’immersione lucida in una trama di psicologie. A essere messo in scena è in questo specifico caso il momento determinante in cui il contesto socioculturale si piega su un’individualità, determinandone vita e identità: Sofia è una ragazza di Casablanca che rimane incinta e rischia la prigione per avere fatto sesso fuori dal matrimonio. La sua vita, dopo le decisioni prese per lei dalla famiglia, cambierà per sempre.
L’impatto emotivo del dramma è comunicato con la tensione propria di un thriller, grazie alla quale l’intensità dell’esperienza non sbiadisce a causa del filtro della rappresentazione ma rimane disarmante: la contrazione psicologica provata dalla ragazza protagonista – costretta a vivere un evento in cui i contorni della società si assottigliano sulla sua pelle e in cui le contraddizioni dello stato passano sul suo corpo – trapassa il contratto tra spettatore e finzione e si impone allo sguardo come scheggia di un reale vicino, ignorato e non più trascurabile, che agita e rimane oltre lo schermo. Si partecipa così anche dopo la visione della violenza di un dove politico in cui gli individui non sono liberi, in cui privato è sinonimo di pubblico, in cui la legge è presente negli interstizi delle mura domestiche e nelle sghembe smorfie della carne. Si intuisce così la geometria quotidiana di un’intimità che è tridimensionale punto cieco in cui gli individui non trovano nemmeno la tregua, il riparo a una politica versata nel controllo delle azioni dei singoli.
Per comunicare con misura concreta l’ineffabilità della situazione emotiva lo sguardo del regista ragiona sulle stanze, sugli abitacoli, sulle vie e sugli interni in cui si muovono e in cui sono costretti a muoversi i personaggi, stringendo e allargando prospettive, e scegliendo in parallelo la giusta dimensione per ogni tema dello spettro contenutistico. Il film fa infatti passare la storia della sua protagonista attraverso la costruzione di più luoghi e intercetta in differenti momenti ma con la medesima urgenza il problema della condizione della donna, le tensioni di classe, le fratture provocate dagli interessi economici e le ferite ottenute dalla violenza: sempre trovando, nella registrazione simulata dell’attività della persona nel contesto, un significato che evade dai circuiti patetici e assume un peso sociale. Il finale è conferma e elevazione alla potenza di tutto questo discorso di ambienti e risposte emotive, perché è chiusura che elimina il futuro dal campo e fotografa senza accento tragico lo sguardo stanco con cui crollano i mondi.