“E in fondo a ognuno di quegli occhi abitavo io, ossia una delle immagini di me che si intrecciava nell’ultramondo che s’apre attraversando la sfera semiliquida delle iridi, il buio delle pupille, il palazzo di specchi delle rètine, nel vero nostro elemento che si estende senza rive né confini”
(Italo Calvino – La Spirale – in “Le cosmicomiche” – 1965)
La spirale logaritmica, o “spirale meravigliosa” nella definizione del matematico Jackob Bernoulli, segue un movimento uniformemente accellerato su una semiretta, questa ruota in modo uniforme intorno alla sua stessa origine. Il passo della “spira mirabilis” non è quindi costante e non raggiunge mai il polo, perché il suo centro è un punto asintotico, ovvero se si procede ad ingrandire verso il centro, troveremo spirali identiche, al contrario, se ci si allontana, le dimensioni della spirale aumentano ma in modo che sia sempre somigliante a se stessa. Queste infinite evoluzioni verso il polo e a partire dallo stesso, vengono definite come “autosomiglianza”.
Una rappresentazione grafica della “spira mirabilis” è per esempio quella dei “Vortici” di Escher, dove le spine dorsali di due pesci sono attraversate da due lossodromie, ovvero la curva inversa rispetto alla spirale logaritmica, una costruzione che ricorda certamente quella dei frattali, non solo perché questi spesso assumono la rappresentazione di vere e proprie spire mirabilis, ma perché la loro caratteristica è proprio quella dell’autosimilarità.
Auto similitudine quindi e crescita continua in uno spazio ottimizzato, ci consentono di riconoscere la “spira mirabilis” in numerose manifestazioni della natura, per esempio la filotassi, che studia la disposizione di foglie, rami, e semi, nella struttura di alcuni crostacei, nel percorso in picchiata del falco pellegrino, nell’apparato uditivo delle chiocciole, ma anche in alcune manifestazioni del mondo inorganico come per esempio quelle dei cicloni tropicali.
Per Italo Calvino, nel racconto “La Spirale”, l’universo invisibile di un gasteropode esiste senza che vi sia un reale rapporto con il concetto di visibilità, eppure lo sguardo si forma e si ripete come un’immagine della mente.
Per D’Anolfi e Parenti i concetti di auto-similarità, visibile e invisibile, ma anche quello di tensione costante senza approdo, sono forme di controllo del caos oppure di abbandono allo stesso, indagate attraverso lo strumento ibrido del cinema documentale, dove la flagranza dell’immagine risiede quasi sempre al di là e al di quà della realtà filmata, così da offrirci una definizione inafferrabile di “documentario”, di per se già votata allo scacco se interpretata letteralmente rispetto alle antinomie del reale, tra memoria, immaginazione e fatto.
Da questo punto di vista, l’andamento di “Spira Mirabilis” procede dalla matematica alla musica nel tentativo di mettere insieme materiali eterogenei raccolti in anni di lavorazione, cercando di catturare auto-somiglianze visive, motivi quasi sinfonici nella costruzione delle immagini, e quel punto di contatto tra matematica e arte, scienze biologiche e artigianato, creatività e numeri, senza svelarne o risolverne il mistero che si cela dietro al gesto, con una serie di movimenti rituali che per certi versi ricordano il cinema del “lavoro” filmato da Yuri Ancarani, ma anche le esplorazioni fantastiche nel cinema di Paul Painlevé.
In questo senso il film è spaccato in due tra suono e immagine, dove il primo, fenomenale esempio di sound design, spesso anticipa la seconda o semplicemente allude ad altre gemmazioni di fatto ancora in nuce nella visione precedente.
Accettazione e superamento dei propri limiti è quindi il risultato di questa tensione per D’Anolfi e Parenti, mappata attraverso una psicogeografia apolide che include Milano, Berna, Wounded Knee e Shirahama, dove troviamo rispettivamente le statue del Duomo di Milano e la loro genesi infinita, la produzione di steelpan, ovvero gli strumenti a percussione che alcuni di noi hanno ascoltato anche nel contesto della tradizione Gamelan, la resistenza di una piccola comunità Lakota rispetto all’entropia e all’annientamento, lo studio sulle meduse immortali da parte dello scienziato Shin Kubota e le immagini di un cinema del passato, prima che il digitale sostituisse le macchine di proiezione, dove tra i fantasmi di luce emerge il corpo altrettanto fantasmatico di Marina Vlady, in una serie di immagini dalla consistenza quasi acquatica, che danno corpo alle parole di Borges sull’immortalità.
Fuoco, terra, aria, acqua, etere, sono gli elementi di un cinema davvero cosmico nel tentativo di ricercare una relazione, irrimediabilmente irrisolta, tra infinitamente piccolo e infinitamente grande, monumentale e microscopico, memoria e immagine.