domenica, Novembre 24, 2024

St. Vincent di Theodore Melfi: la recensione

L’impenitente misantropo Vincent McKenna, dedito ad alcool, scommesse e spogliarelliste, si troverà a fare da babysitter al piccolo vicino di casa Daniel, preadolescente mingherlino reduce da separazione dei genitori e conseguente trasloco nei quartieri meno à la page di Brooklyn.La prevedibile sorpresa è che, tra divertenti equivoci e una certa dose di black humor, lo strano sodalizio renderà migliore la vita di entrambi.

Per motivi di immediatezza e facilità di clasificazione, St. Vincent viene presentato dalla gran parte dei commentatori con l’etichetta di commedia indipendente, definizione scivolosa frutto di un fin troppo ricorrente incrocio tra formato produttivo, target di pubblico e elementi contenutistici, finendo per cristallizzare nell’immaginario un sottogenere di atmosfere e tematiche precise affollato di ragazzini problematici e mentori anti-convenzionali (Little Miss Sunshine, Half Nelson, Cyrus, Starlet, Terri, Win Win solo per citarne alcuni). Ad indebolire la componente economica del marchio “indie comedy” c’è il fatto che St. Vincent sia costato quasi il doppio del più costoso dei film citati, e sia prodotto dalla Weinstein Company, casa per cui viene utilizzato la chimerica definizione di “mini-major” e il cui fondatore, Harvey Weinstein è il modello in carne e ossa al quale si è ispirato Tom Cruise per la sua parodia di produttore spietato e onnipotente in Tropic Thunder.

Aldilà delle considerazioni produttive, anche da un punto di vista artistico  il film non sembra aspiri ad entrare nell’area concettualmente off-hollywood a cui dovrebbe riferirsi la commedia indipendente, se non con l’eccezione dell’ordinarietà periferica delle location e dell’altrettanto ordinaria eccentricità del coro dei caratteri, dal sardonico prete-insegnante di Chris O’Dowd alla brusca stripper russa di Naomi Watts. Formato da una lunga gavetta fatta di corti, spot pubblicitari e piccole produzioni, Theodore Melfi non cerca alcuna deviazione, che sia visiva, di ritmo, o di punto di vista dai binari della commedia per famiglie.

Sceglie invece di mettere la macchina da presa al servizio completo della propria sceneggiatura, che calibra con millimetrica attenzione scorrettezze e tenerezze, imbarazzi e ricongiungimenti in una miscela perfettamente equilibrata, optando in definitiva per un linguaggio visivo impalpabile e sottotraccia, che possa lasciare agli interpreti, Murray in testa per distacco, la responsabilità di riempire con la giusta umanità le inquadrature e reggere il film . Non vi è quindi significativa traccia di elementi di rottura con la tradizione di parabole rassicuranti e natalizie: la riabilitazione del vecchio mascalzone passa attraverso la rivelazione del suo status di eroe di Guerra e marito enormemente affettuoso, come l’accettazione della poco presentabile “signora della notte” Daka coincide con la sua evoluzione da prostituta e stripper a madre e badante. Tutto molto ben confezionato (non manca neanche la convocazione del più popolare dei riferimenti comici americani , col parallelo tra la coppia di protagonisti e le comiche di Abbott e Costello), tutto magnificamente interpretato dal cast, tutto molto rassicurante e prevedibile.

L’ufficiosa canonizzazione di Vincent, alla quale si deve il titolo del film, finisce così per risuonare anche su un livello ulteriore rispetto a quello della vicenda raccontata: rivelata la sua immancabile ma immancabilmente nascosta percentuale di cuore d’oro (e il suo appeal commerciale), il cinico antieroe di periferia viene introdotto nel canone dei santi protettori della commedia hollywoodiana tradizionale, fornito ora dell’aureola adatta per approcciare una più consistente fetta di pubblico. Lo sguardo perennemente perplesso Murray accetta noncurante l’investitura e ci si adagia sornione, come sulla sdraio da giardino nella scena dei titoli coda. Se pure rimane intatto il piacere di vedere ancora una volta la sua imperturbabile faccia tosta, non è questo il contesto dove si esprime al meglio delle sue  malinconiche e dissacranti possibilità.

Alfonso Mastrantonio
Alfonso Mastrantonio
Alfonso Mastrantonio, prodotto dell'annata '85, scrive di cinema sul web dai tempi dei modem 56k. Nella vita si è messo in testa di fare cose che gli piacciano, quindi si è laureato in Linguaggi dei Media, specializzato in Cinema e crede ancora di poterci tirare fuori un lavoro. Vive a Milano, si occupa di nuovi media e, finchè lo fanno entrare, frequenta selezioni e giurie di festival cinematografici.

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