Home alcinema Stanlio & Ollio di John S. Baird: la recensione

Stanlio & Ollio di John S. Baird: la recensione

Nel 1937 Stanlio e Ollio (“Laurel and Hardy” nei paesi anglosassoni), duo del riso per antonomasia, genialità comiche combinate da un’intuizione del diversamente ma altrettanto brillante produttore Hal Roach, sono all’apice della loro carriera, tra i pochi ad avere attraversato con successo il passaggio al sonoro, conosciuti e amati in ogni dove, destinati a segnare l’immaginario di lì in avanti, non solo quello cinematografico.

Long take, carrello di sei minuti: Steve Coogan e John C. Reilly, nei panni effettivi della mente britannica (Stan) e del braccio statunitense (Ollie, anche vezzeggiato “Babe”) della coppia, camminano, letteralmente dal camerino al set, dentro le dinamiche del sistema Hollywood.

Jon S. Baird, eclettico produttore, sceneggiatore e regista – nel 2013 dirige lo sfrontato, quanto di più lontano, e vincente, “Filth” con un lercio, welshiano James McAvoy, realizza un biopic che è omaggio squisito a due icone non tanto in termini di materia celebrativa, quanto nella volontà e capacità di riflettere sul contenuto tramite l’aderenza alle forme della composizione narrativa e visiva che lo hanno significato: “Stanlio & Ollio” si veste del più complesso dei sistemi, la semplicità, per farsi sì ode nostalgica nel particolare, ma di un passato che non ha mai smesso di riformularsi, essere presente.

La carrellata di apertura, in questo senso fuori contesto, ha valore programmatico, guida l’occhio verso il film dentro il film che muove dal gioco di specchi con il contesto della scena: insieme ai due, la macchina da presa attraversa gli Hal Roach Studios, afferra in pochi tratti clima e moltitudine dei mestieri mentre un fitto dialogo in cui si inserisce con pugno di ferro lo stesso Roach (Danny Huston) fa luce sulle logiche contrattuali che vincolavano gli attori non adeguatamente retribuiti, esclusi, com’era prassi, dal ricavato sui diritti.

Le riprese de “I fanciulli del West” sono in corso, Coogan e Reilly eseguono con esilarante, mimetica esattezza di passi – e di errori! – At the ball, that’s all; lo stacco è dal set alla sala gremita, poi, imprevisto, a sedici anni dopo.
Circoscritto ad un periodo limitato di tempo sul finire di un’era, il racconto biografico percorre allora gli anni poco noti al grande pubblico della tourneé teatrale del duo in Inghilterra, tra alberghi di secondo ordine e platee semivuote, fino a un riscatto professionale che si compie per metà a fronte però di una riscoperta, o realizzata per la prima volta, amicizia.

Nel tentativo solito di restituire il ritratto degli uomini dietro gli artisti, il risultato è quello se non insolito certo arduo di evidenziare strutturalmente l’inscindibilità tra i loro modus operandi e vivendi; più a fondo, tra pensare un certo tipo di cinema e fare cinema.

La regia, classica, anche impersonale purché non la si ritenga una nota di demerito, è tutta a servizio di una storia sostenuta con esperta misura dallo script di quel Jeff Pope che già aveva dato prova di sé in “Philomena” (2013). Congegno delizioso, mistione equilibrata, mai sovrabbondante, di humor e malinconie, la sceneggiatura mette a punto un tessuto di gag che dallo schermo e dal palco irradiano la vita vissuta, le organizza a puntellare una comicità specificamente propria che fa perno sui modelli “sofisticati” degli anni Trenta, in maniera tanto più esemplare nei sipari con le mogli della strana coppia: Ida Kateava Laurel (Nina Arianda) e Lucille Hardy (Shirley Henderson) sono le stesse bizzarre, pungenti ed affrancate donne di Lubitsch, Capra, Hawks, in un film che plaude l’immediatezza della corporeità slapstick nel vortice di una frenesia dialogica mostrando di rimando quanto questa sia ancora e sempre capace di divertire.

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