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Stories We Tell di Sarah Polley allo Spazio Alfieri di Firenze: La recensione

David Hockney verso la fine del 1976, mentre preparava nel suo studio il ritratto dedicato ai suoi genitori, decideva di prendere alcune fotografie durante le sedute di posa, si trattava di alcuni scatti che includevano nell’immagine un soggetto raddoppiato dalla stessa presenza del quadro in lavorazione, finestra sempre visibile nelle inquadrature, per Hockney segno di una vicinanza molto precisa che disincarnava il suo occhio dalla postura distante di un Voyeur e identificava la sua presenza come partecipazione viva; Hockney, in alcuni dei suoi scritti sulla fotografia, racconta come sia difficile l’atto del ritrarre i propri famigliari, perchè mentre li stai studiando, studi anche te stesso, diventando parte del ritratto.

Ci sono venute in mente queste osservazioni vibranti dell’artista di Bradford, sempre attento alle increspature tra le immagini, dopo la visione del nuovo, splendido film di Sarah Polley commissionato dal National Film Board of Canada, documentario che la cineasta Canadese realizza a partire dalle memorie che si sono stratificate sulla storia dei suoi genitori,  l’attore di origini inglesi Michael Polley e l’attrice Canadese Diane Polley.

Stories We tell comincia con una citazione sulla non locabilità della memoria, tratta da Alias Grace, il romanzo  di Margaret Atwood che con molta probabilità sarà il prossimo adattamento su cui la Polley lavorerà; ed  è una scelta molto precisa che amplifica quello slittamento dello “storytelling” già decentrato in “Take This Waltz“, il secondo film diretto da Sarah Polley, ancora inedito in Italia.

La Polley, come Margaret Atwood, sembra interessarsi alla disgiunzione tra narratore e ascoltatore, nella prospettiva in cui entrambi possano influenzarsi a vicenda contribuendo a rendere sempre più labile il confine tra Storia e Racconto, Verità e trasformazione del reale.

Con un’attitudine documentale che ricorda l’idea di memoria Markeriana, intesa come mappatura geografica di segni e frammenti, Sarah Polley si serve di vecchi filmati super 8 originali, li confonde con alcuni ricostruiti e probabilmente simulati, facendo interagire questa materia cognitiva con una serie di interviste realizzate secondo il procedimento di un’inchiesta, e utilizzando una replica della testimonianza di Michael Polley come testo trascritto che lo stesso attore reciterà sotto la direzione di Sarah in uno studio adibito al doppiaggio; anche se quest’ultimo elemento sembra assumere il ruolo di una voce off, è chiaro quanto alla Polley non interessi stabilire una guida per il racconto, ma al contrario rivelarne le possibilità combinatorie e plurali.

La stessa Polley, in un rovesciamento vertiginoso, assumerà una posizione partecipativa modificando il suo sguardo come autrice, in particolare nei momenti epistolari con Harry Gulkin, il produttore cinematografico Canadese, amico di famiglia e con un ruolo che si avvicinerà ad una possibile definizione  per Sarah stessa, durante la lavorazione del documentario. Quel senso della fine che attraversa Away From Her e Take This Waltz,  i due lungometraggi della Polley, film  sull’oblio e sullo spazio bianco della memoria rivelato come compresenza del vuoto alla pienezza dei sentimenti, in Stories We Tell si spinge verso quel confine tra tenerezza e dolore, ricordo e dimenticanza, che ci consente di riconoscere e comprendere il senso della propria morte, come nelle parole scritte da Timber Timbre per la sua Demon Host e sovrapposte sulle ultime immagini del film,

 

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