Premio Speciale della Giuria al Torino Film Festival 31, distribuito da Lab 80 film, arriva in sala Striplife – Gaza in a day, una giornata del 2013 nella Striscia di Gaza, dall’alba a notte, ripresa da cinque giovani registi italiani del collettivo Teleimmagini.
Rare didascalie scandiscono le ore e indicano i luoghi, nessuna voce esterna, pochissimi dialoghi, la mdp scivola su persone, case, strade, terra e mare, e non racconta storie perché non serve.
Né documentario né fiction, solo lo sguardo e le sue traiettorie imprevedibili, a volte segnate da un pensiero dominante, da una storia alle spalle, altre, più casualmente, da una momentanea astrazione dal corso della vita.
Sguardo su quella lingua di terra segnata da una guerra che un infelice ossimoro chiama “a bassa intensità”, terra di confine perché il confine è la sua condizione costante, registra una fragile e testarda convivenza con la morte, che poi è anche vita se, nonostante tutto, Mohammed Antar continua fare rap con gli amici in spiaggia, dopo il lavoro, perché farlo in pubblico, per strada, è vietato in Palestina. E’ rimasto solo lui della famiglia con Majd, il fratello più piccolo, e sa come seguirlo.
E’ anche vita se Moemen è su una sedia a rotelle, ha perso le gambe nel 2008, mentre fotografava i bombardamenti israeliani, ma continua a caricare con cura meticolosa la sua Canon per scattare foto a raduni e sfilate di protesta. Ed è vita perché Salem, che giocava nella nazionale palestinese di calcio, oggi allena ragazzini e sfoglia un po’ triste le foto di dieci anni fa, quando era magro e giocava sul tappeto verde del campo con la sua squadra, prima del bombardamento. Ora lo stadio è un ammasso di macerie, lui le guarda e la voce delle radiocronache di allora gli risuona nella testa. Ma bando alle malinconie, si studia la strategia di squadra a tavolino, mentre i ragazzi si allenano.
E’ il campo profughi di Jabalia e c’è un centro sportivo che si può usare.
Al porto oggi è festa, in nottata sono spiaggiate decine di mante, chissà per quale sorta di divina Provvidenza, e ora sono allineate tutte sulla sabbia in una stranissima distesa di triangoli biancastri. Bisogna dividerle fra i pescatori arrivati a frotte, litigare un po’, mettersi d’accordo, spezzarle, caricarle sui carretti trainati da asini e cavalli e portarle via a vendere. Quel mare, ora rosso del sangue del pesce fatto a pezzi, non è libero, è sotto assedio, pescare vuol dire spendere 3000 shekel di carburante al giorno per andare in Egitto e queste mante sono una vera benedizione.
I pescatori scherzano con la troupe, oggi è festa a Gaza, c’è qualche soldo in più.
Alle 13 la spiaggia è ormai vuota, barche silenziose dondolano nel porto con le reti ammucchiate sulla tolda, un ragazzo pesca con la lenza e un gruppetto se ne sta immobile, stretto nell’ombra di un vecchio muro.
La preghiera del muezzin passa nell’aria, è la seconda del Bes Vakit , “cinque volte”, i cinque momenti di preghiera (salat) di un musulmano lungo la giornata: al mattino, a mezzogiorno, a metà pomeriggio, al tramonto, un’ora e mezza dopo il tramonto.
Un bambino fa lo scivolo sulla scalinata della moschea, uomini pregano in ginocchio sui tappeti, la città, fuori, è una striscia di geometria impazzita, di grattacieli vuoti, pieni, sventrati o biancheggianti, piatti contro il cielo e alti sulla spiaggia solitaria. E’ una Gaza inedita, lontana dai notiziari, triste contabilità di bombe e morti, anche se il fumo lo vediamo all’orizzonte e il reticolato passa vicino all’orto di Jaber, che resiste e innaffia le sue piantine, guardando in silenzio la jeep di controllo che passa sul confine.
Ogni anno semina la sua terra senza la certezza del raccolto, scrive la didascalia. Ma “Le piante hanno un’anima, sono esseri viventi” diceva a Salma il vecchio giardiniere de Il giardino di limoni, muraglioni, cellule fotoelettriche e torrette con soldati armati a difesa della casa del ministro non riusciranno a sradicare il suo straordinario giardino dai trecento alberi colmi di limoni.
Da nord a sud lungo la striscia, fino al confine egiziano, da Gaza city alle distese di sabbia e sassi dove la miseria, se possibile, è ancora più essenziale, antispettacolare, arcaica, e un gregge bela, Fatima munge, un bambino fa rotolare un copertone e gioca, il muro, invalicabile, grigio, è lì a due passi, ma la vita continua.
Fotoreportage mai apologetico nè accusatorio, Striplife – Gaza in a day guarda con rispetto, sa dove poggiare lo sguardo e di cosa sorridere. E’ un film di giovani che non si arrendono e dei ragazzi del Gaza Parkour Team, che si allenano saltando come cerbiatti da un piano all’altro di palazzi ridotti a scheletro o volano piroettando oltre il muro del cimitero e corrono fra le lapidi, sa comunicare la grazia leggera e la straordinaria, vitale performance atletica. Un film che di Noor, la giovanissima speaker televisiva che deve leggere e rileggere il comunicato perchè continuamente interrotta da rumori esterni, ci racconta la simpatica civetteria e il sorriso luminoso.
Verso sera la luce si fa più dorata, si accendono le luci dei pochi negozi, il supermarket brilla di luce, la merce arrivata da Israele è allineata sugli scaffali. L’ottanta per cento della popolazione di Gaza dipende dagli aiuti umanitari di Israele, – ha detto Noor nel servizio in esterno per Tijah Tv – ma queste terre una volta erano la risorsa principale di cibo, producendo frutta e verdura eccellenti.
Da lontano arriva l’eco del muezzin. E’ l’ora dell’ultima preghiera, il gregge è tornato all’ovile, Jaber in ginocchio sull’erba recita le sue lodi ad Allah. I due minareti all’orizzonte puntano il cielo che sfuma dal rosa al violetto, la cupola della moschea è al centro, il resto dell’orizzonte è una massa nera indistinta. La ruota del Luna Park si abbassa, un lungo volo di uccelli migratori sul mare, la superficie appena increspata.
Uomini seduti davanti alla porta di casa, donne alle finestre. E’ la sera del sud, sulla spiaggia i pescatori raccolgono le reti, due ragazzi tirano calci ad un pallone.
C’è pace, solo il rumore del mare, una risacca lenta. Noor è al computer, da Carino’s, un locale alla moda. Ha il portatile e si collega a facebook, ha conosciuto così il suo fidanzato inglese e forse si sposeranno secondo la tradizione palestinese. Un centro commerciale, nei corridoi ormai vuoti al primo piano manichini con vestiti occidentali, altri in chador al piano terra.
Una partita di campionato e un video amatoriale per la serata dei giovani. Qualcuno ha fatto delle riprese, il giorno. Si vedono ancora i ragazzi del Gaza Parkour Team, entrano in scena con le loro capriole sullo sfondo delle colonne di fumo di due razzi. Sembra che formino un cuore, salendo, ma è solo un attimo.
Ora la città dorme, un falò brucia delle assi per strada, poche auto superano un posto di blocco, un gatto attraversa tranquillo.
C’è pace a Gaza. Il cinema, spazio immateriale delle infinite possibilità, è territorio di elezione per una terra, Gaza, in cui tutto è esperibile. Dall’alba alla sera la vita trascorre senza sapere se ci sarà un futuro, ma non si rinuncia mai a crederlo possibile.