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Suffragette di Sarah Gavron: la promessa di un mondo migliore

Dopo l'anteprima al festival di Torino arriva nelle sale italiane Suffragette di Sarah Gavron, al cinema dal prossimo 3 marzo.

Ha aperto il Torino Film Festival 2015 e arriva nelle sale il prossimo 3 marzo, il mese canonico delle donne, con quell’8 marzo che è il loro “giorno della memoria”.

Suffragette di Sarah Gavron cade come un sasso nello stagno di tempi sempre più bui per quella metà del cielo che resta l’anello più debole di questa ormai quasi decennale fase di crisi economica. Gavron illumina dal basso, le sue suffragette sono autentiche proletarie, qualche borghese e rare Ladies ben maritate in vena di impegno politico sfumano sullo sfondo, oscurate da queste donne fragili ma anche dure, insicure eppure determinate, e soprattutto povere.

Maud (Carey Mulligan) e la sua amica Violet (Anne-Marie Duff) lavorano in una lavanderia dell’ East End londinese d’inizi ‘900, gestita dal classico padrone che fa e disfa, le usa e getta a suo piacimento. La fotografia di Eduard Grau le immerge in fumi soffocanti, acque sporche, luci abbrunate di una Londra che più dickensiana di così non si potrebbe.

Queste “suffragette”, che la straordinaria Emmeline Pankhurst creò dal nulla all’inizio del secolo, sono le donne vere che in tutte le epoche della loro storia hanno fatto la differenza, e non solo con gli uomini, anche con quelle donne che, per paura o per convenienza, hanno rinunciato ai loro diritti. Meryl Streep appare per pochi minuti nella parte di Emmeline, ed è un momento di grande forza, affidato al suo viso scavato dallo sguardo dolce e febbrile. Sotto il suo balcone, in notturna, gridano accalorate le donne con i loro cartelli ”Votes for Women”, poche parole per incitare alla lotta e poi la fuga. La carica della polizia e le manganellate sono in arrivo, la prigione le aspetta, a casa i mariti le ripudiano e tolgono loro i figli, magari per affidarli a qualche famiglia benestante. Il vicinato s’indigna e si scandalizza, il padrone le licenzia, il mondo le deride. Anche quel nome, “suffragette”, suona scherno.

Eppure ce l’ hanno fatta, il voto l’hanno ottenuto e l’hanno pagato molto caro. Gavron sa come evitare il santino, la vecchia storia rancida che il tempo ha ingiallito come le vecchie foto. Il suo film svetta per l’aggancio solido con l’attualità di una condizione femminile tutt’altro che risolta. Immune da espedienti stilistici atti a procurare facili emozioni, deve la sua carica drammatica alla capacità del cinema di far parlare l’immagine, di renderla segno. Gavron si mette al livello delle sue donne, della loro passione ideale e della loro solitudine reale. Le fa emergere dal buio, le illumina in primi piani che rivelano tutto quello che non dicono, e al centro di questo universo femminile c’è la piccola Maud, una Carey Mulligan dolcissima, atterrata nel suo amore di moglie e madre dalla brutalità che la circonda, ma esaltata da una passione che si risveglia in lei piano, lenta come tutte le grandi trasformazioni che fanno evolvere e diventare diversi, spingendo a cambiare il mondo intorno a sé.

Le fa da contrappeso Violet (Anne Marie Duff), e sembra completarla col suo piglio forte, energico e volitivo, tanto sicuro di sé quanto l’aria di Maud vibra tremula intorno a quel visetto spaventato. Ma ci sono cose che s’impongono per la loro forza intrinseca e Maud riesce a non fermarsi. Il figlioletto adorato sembra capirla, anzi, certamente la capisce quando glielo strappano per affidarlo ad un’altra madre e lei lo saluta dicendo: “Ricorda, tua madre si chiama Maud Watts, cercami”.

E’ la promessa di un mondo migliore per cui dovrà combattere, e lo farà anche per lui.
Nel 1903 nasceva la Women’s Social and Political Union fondata da Emmeline Pankhurst, e sulla sua spinta una campagna internazionale promosse la disobbedienza civile come strumento di lotta. Da quel momento fu “no” alle manifestazioni pacifiche che da decenni venivano ignorate. Agire con radicalità ricorrendo anche alla violenza, sempre contro le cose mai contro le persone, fu necessario e le donne impararono a costruire bombe, tagliare i fili della corrente, lanciare sassi contro le vetrine.
Divennero soprattutto brave a difendersi dai poliziotti andando ai corsi di arti marziali che Edith Garrud organizzò dal 1913. Erano nate le jiu-jitsuffragettes. Le parole in apertura sono quelle di uno speaker del Parlamento londinese a cui fa da sponda il popolo maschile tumultuante: Le donne non hanno la calma di temperamento né l’equilibrio mentale per esprimere un giudizio nelle questioni politiche. Se permettiamo loro di votare sarà la perdita della struttura sociale
Le donne sono ben rappresentate dai loro padri, fratelli, mariti. Una volta concesso il voto sarà impossibile tornare indietro. Le donne chiederanno il diritto a diventare parlamentari, ministri, giudici.

Le ascoltiamo fra i fumi della lavanderia dove si consumano vite di donne e abusi di Mr. Taylor su lavandaie bambine di cui pullulava la periferia londinese. Da Westminster all’East End e ritorno, la cosiddetta democrazia inglese accoglie i cahiers de doléance dei suoi cittadini, e così Lloyd George ascolta, paterno, anche Maud, catapultata lì dal caso che la vede sostituire, per necessità, la povera Violet arrivata col viso rotto da qualche manrovescio ben assestato.

Naturalmente le vie legali della protesta rimangono lettera morta, la stampa si schiera con i politici, gli organi di polizia sono in allerta costante, il posto della donna nella società degli uomini è e deve restare quello che fu sancito da tempi immemorabili.
Di queste donne parla Sarah Gavron, picchiate brutalmente, arrestate, stuprate, immolate, come Emily Davison, morta durante il derby di galoppo di Epsom, finendo sotto il cavallo in corsa di re Giorgio V nel tentativo di attaccare la sua bandiera alle briglie.

Il finale arriva così, in quel tendersi in avanti verso una direzione che fa da guida, seguendo un percorso che è anticipazione della meta, e il tema della lotta femminile acquista la naturalezza semplice delle cose che nella vita devono accadere.
L’epilogo è perfettamente in linea con la compostezza di uno stile che non si compiace, sceglie la misura sobria del racconto realistico per parlare di sentimenti grandi, che non serve gridare perché dimostrino di esserlo. Sono immagini di repertorio del funerale di Emily, il 12 giugno 1913. Sfilarono migliaia di donne e la notizia fece il giro del mondo, attirando l’attenzione di tutti sui loro diritti. Scorrono infine le date di conseguimento del voto, raggiunto dalle donne britanniche nel 1918, in forma incompiuta, fino all’Arabia Saudita, dove è stato concesso nel 2015. Ma, attenzione, il 72,5 per cento dei sauditi non appoggia la candidatura femminile alle elezioni e le donne continuano a non poter guidare l’auto per cui, se vogliono arrivare al seggio, bisogna che le accompagni un uomo.

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