domenica, Dicembre 22, 2024

Take Five di Guido Lombardi: la recensione

Prende il titolo dall’omonimo standard jazz l’opera seconda di Guido Lombardi, fattosi già notare con l’ottimo Là-Bas del 2011. Poco altro lega la nuova fatica del regista napoletano all’assennato brano di David Brubeck, essendo Take Five (il film) un andirivieni di stimoli visivo/narrativi composito, sporco e meticcio come lo stesso contesto in cui è stato pensato e realizzato (che è più Charles Mingus, allora. Anzi è proprio James Senese). Un contesto che viene, pienamente, restituito sullo schermo in tutta la sua sanguigna, brusca, mortifera vitalità, mutuando il principio neorealista (per una volta con cognizione di causa) dell’espressione del racconto attraverso lo sguardo sulle contingenze storiche della realtà; superando il limite cronachistico del dramma sociale, per farsi al contempo apologo minimo ed universale. Lombardi recupera la formula del noir classico (ancora uno standard), narrando una vicenda che potrebbe avere qualunque parte del mondo a farle da sfondo ma rintracciando nell’etica da crimine del vicolo il terreno ideale per la costruzione di un testo che diviene, già dai primi minuti, teoria del e sul cinema: un’indagine di respiro ampissimo sulle potenzialità delle strutture del genere nero, alveo ideale per ogni resoconto sui fenomeni umani e sociali; alveo ideale per lo studio sulla dinamica del farsi delle storie; alveo ideale per un cinema che dice di sé stesso attraverso un inseguirsi di rimandi ma anche solo suggestioni, in cui la citazione, il recupero, lo stesso plagio, vanno in forza alla narrazione senza mai divenire per questo pericoloso orpello soverchiante. Di fatto, Take Five, trasfigura davvero Rapina A Mano Armata, attraverso Le Iene, in un episodio ideale di un ideale remake truce de L’Oro Di Napoli; è davvero I Soliti Ignoti calato tra i liquami di Gomorra; è realmente uno scontro I Senza Nome vs. Sonatine vs. A Better Tomorrow vs. La Capagira approntato tra i Quartieri Spagnoli in forma di sceneggiata.

Nel raccontare la vicenda degl’improbabili malacarne male in arnese, convinti di svoltare con il profitto di una rapina in banca, Lombardi si muove con agilità tra le pieghe di un soggetto che ribalta complessità e leggerezza per tutta la sua durata; gestendo i momenti più crudi con estrema lucida pacatezza. Orchestrando una pellicola articolata in almeno quattro movimenti distinti (preparazione, rapina, attesa, resa dei conti), diversificati per intensità e struttura, senza un minimo cedimento; giocando coi cliché, prendendo e prendendosi in giro (le maschere di Pulcinella); costruendo una galleria di personaggi terrifici eppure profondamente umani, i cui profili psicologici rifuggono ogni ipotesi di cliché. Riuscendo, oltretutto, nell’impresa di gestire l’irruenza, difficilmente contenibile, di un gruppo d’attori in autentico stato di grazia: Salvatore Striano, Salvatore Ruocco, Carmine Paternoster, Gaetano Di Vaio, Antonio Pennarella, Gianfranco Gallo e con un Peppe Lanzetta monumentale e laidissimo.
Un film di corpi: in pericolo, in disfacimento, al collasso, dislocati e disarticolati, scolpiti da storie vissute, nella realtà come nell’artificio filmico, nella piena consapevolezza della propria terminalità (la galera). Una consapevolezza talmente forte, talmente critica, talmente radicata e sofferta, da potersi permettere il lusso dell’autoironia, del sarcasmo, della farsa, senza mai perdere un grammo di coerenza. Ne risulta uno scurissimo, ruvido e feroce, affresco grottesco e ruggente, saldamente ancorato a quella radice scura da cui trae linfa l’anima urbana di Napoli e che rinnova, laddove fosse ancora necessario farlo, tutto l’interesse per quella new wave cittadina che andando da Martone a Garrone, passando per Corsicato e Capuano, arrivando sino a Gaudino, Incerti, De Angelis (per non dirne che alcuni) compone la più viva delle scene artistiche peninsulari.
Se ne ricava l’immagine di un cinema italiano che proprio grazie a lavori come questo (ma anche come Perez, Anime Nere, Senza Nessuna Pietà) sembra recuperare, non senza traumi, è chiaro, lentamente, la sua natura più autentica di cinema narrativo, d’idee, di volti, di luoghi, di lingue, di pancia e di cuore. Fuori dai denti: un mezzo capolavoro.

Alessio Bosco
Alessio Bosco
Alessio Bosco - Suona, studia storia dell'arte, scrive di musica e cinema.

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