All’indomani del consolidamento del potere militare in indonesia nel 1965, il partito Comunista (PKI) viene messo in condizione di impotenza; dopo l’uccisione di sei generali la cui colpa ricade sullo stesso partito, il generale Suharto spinge Sukarno, presidente fino al 67, a dare forza ai militari per organizzare la repressione sistematica del PKI. Le azioni vengono organizzate attraverso una serie di gruppi paramilitari, veri e propri gangsters il cui compito è quello sterminare i Comunisti indonesiani con i mezzi più feroci. Il giovane documentarista di origini Texane Joshua Oppenheimer (classe 1974) con la produzione esecutiva di Werner Herzog ed Errol Morris si reca sul luogo dei fatti rintracciando direttamente i membri della Pancasila Youth, ovvero l’organizzazione paramilitare incaricata dello sterminio nel ’65 e guidata da Anwar Congo.
La proposta che Oppenheimer fa a Congo e alle persone coinvolte in quei fatti è quella di mettere in scena gli eventi e le esecuzioni più cruente in una sorta di reinvenzione cinematografica del racconto storico, dove gli stessi Gangsters interpreteranno rispettivamente i carnefici e le vittime. Oppenheimer in questo modo si allontana dall’idea di documento come testimonianza e spinge la realizzazione di The act of killing verso un territorio stratificato e pericolosissimo che almeno a prima vista sembra alludere alla scuola di Peter Watkins e anche all’esperienza controversa di Jacopetti & Prosperi. In realtà la stratificazione che il regista di origini Americane contribuisce a mettere in scena non è troppo distante da certe immagini Herzoghiane estreme come per esempio la messa in abisso dei footage di Grizzly Man, dove testimonianza, morte in-diretta, sguardo sulla morte, drammatizzazione, entrano in corto circuito. Ad Anwar Congo e ai suoi colleghi viene consentita la massima libertà nella drammatizzazione degli eventi dove confluiranno elementi di cultura popolare, ritualizzazione epica del racconto, fascinazione per il numero musicale, con il coinvolgimento dell’intera comunità.
Le descrizioni degli efferati omicidi e delle torture vengono riprodotte drammaticamente con un’approssimazione che evidenzia sempre il diaframma della maschera, con un iperrealismo che ha più del rituale sciamanico che non della ricostruzione realistica. Come gli zombies di un videoclip a basso costo Anwar Congo e i suoi compari si applicano ferite finte, raccontano della loro volontà di costruire un racconto cinematografico efficace, descrivono lo sterminio di un piccolo villaggio rimettendolo in scena con le proprie mogli e i propri bambini, ed è proprio in queste circostanze che il dispositivo di Oppenheimer si mostra in una strana perversità.
I bimbi percependo solamente l’intensità della messa in scena senza nessun filtro che consenta loro di vederla attraverso un frame, escono sconvolti e in lacrime dall’esperienza. Durante la lavorazione del documentario, come ha avuto modo di confermare Oppenheimer in occasione degli incontri con la stampa e con il pubblico allo scorso Festival di Berlino, dove il film è stato presentato in anteprima mondiale, l’atteggiamento di Anwar Congo cambia sensibilmente; in una prima fase gioca con la rappresentazione e si preoccupa di descrivere con più precisione possibile tutti i dettagli delle torture, cercando di esorcizzarne l’orrore con il ricordo di una bella vita: “ballavamo il cha cha cha” dice Anwar Congo associando la morte ad una visione romantica di quegli anni; ma mano a mano che l’avvicinamento di Oppenheimer ai carnefici progredisce, in una direzione forse più disturbante e rischiosa di quanto non abbia fatto lo stesso Morris nel suo lavoro sul braccio della morte, diventa per lo stesso Congo insopportabile.
L’atto di uccidere, inteso come ri-messa in scena si trasforma in uno slittamento del pensiero e per Anwar smette di essere un gioco trasformandosi in una brutale immagine interiore della realtà. Congo comincia a sentirsi male, immagina se stesso al posto delle vittime, crede di soffocare anche in un contesto dove tutto è palesemente “finto” e si chiede se potrà mai essere perdonato per i suoi crimini.
The act of killing in questo senso non perde mai le sue caratteristiche ambigue nella rappresentazione del reale, mantenendo una giusta distanza nei confronti sia di tutto l’orpello metavisivo che dello stesso Anwar Congo; come ha avuto modo di dire lo stesso Oppenheimer, il suo lavoro è quello di un documentario di osservazione dell’immaginazione, invece che un documentario di osservazione sulla vita di tutti i giorni dei testimoni coinvolti.
Il cortocircuito che rende indistinguibili, se non attraverso una mistificazione intollerabile, la differenza tra cinema di finzione e cinema documentario, come ci capita spesso di dire qui su Indie-eye, fa di The Act of Killing uno straordinario lavoro storiografico.