C’era una volta qualcuno che cantava «seconda stella a destra: questo è il cammino e poi dritto fino al mattino», ma se in quel fantastico film Disney, che questo brano ci riporta alla mente, i protagonisti volavano via grazie alla polverina magica elargita da una fatina, i protagonisti di The Aeronauts si accontentano di una mongolfiera, un enorme pallone aerostatico che sorvoli il cielo raggiungendo le nuvole.
Tom Harper confeziona una favola i cui effetti visivi straordinari conducono Amelia Wren e Henry Coxwell attraverso l’atmosfera in uno di quegli scenari che solo Mary Poppins avrebbe potuto creare.
Nel 1862, il meteorologo britannico James Glaisher e il copilota Henry Coxwell volarono in mongolfiera partendo da Londra, batterono il record mondiale di altitudine di volo, tornarono vivi dopo aver raggiunto i 38.999 piedi. Questa è la storia su cui Harper e il suo sceneggiatore Jack Thorne hanno lavorato sottraendosi a quel giogo definito accuratezza storica.
The Aeronauts diventa un racconto di sopravvivenza nel quale Felicity Jones e Eddie Redmayne, tornati insieme sulle scene dopo La Teoria del tutto, appaiono più come eroi d’azione che aeronauti.
Redmayne interpreta lo scienziato realmente esistito James Glaisher che sogna un futuro avanzato attraverso lo studio della meteorologia. Jones invece è ritratta come una vedova benestante di nome Amelia Wren, un’idealista, che preferisce librarsi nell’atmosfera piuttosto che aderire ai doveri tipici che ci si aspetta dalle donne della sua epoca.
James si pone in netto contrasto con quel polveroso mondo tutto maschile di colletti inamidati e cappelli a cilindro a cui cerca di spiegare la propria missione, nessun appello a quei dotti signori della Royal Society serve per convincerli a finanziare la spedizione che vuole per il progresso della conoscenza e il bene comune mentre Amelia è ancora in lutto per la tragica perdita del marito, rimasto ucciso in una precedente spedizione. Gli interessi dei due personaggi convergono su un solo punto, la passione per l’esplorazione.
La sconvolgente bellezza visiva dei cieli e le esilaranti acrobazie compiute dai protagonisti grazie all’utilizzo della CGI e rese attraverso l’obiettivo leggerissimo di George Steel danno alla pellicola quel senso di vertigine che riporta alla mente le scene girate da Alfonso Cuarón in Gravity ma purtroppo a questi gloriosi effetti si contrappone una sceneggiatura scialba e piatta che ti fa sperare che il film resti sospeso in aria per sempre.
La storia infatti si dipana lungo due filoni, una in cui i personaggi sorvolano il paesaggio londinese del XIX secolo e l’altra tramite una serie flashback in cui si apprende come i due si siano conosciuti e quali ragioni li abbiano spinti a intraprendere questo viaggio. Ed è proprio nel passato che i dialoghi di Thorne si fanno sfilacciati e la sceneggiatura approssimativa, accontentandosi di raccontare il minimo indispensabile, inserendo quei cliché melodrammatici che annoiano e con il susseguirsi del film diventando sempre più sgraditi.
Il soffio del vento, la temperatura gelida che sembri avvertire sul viso e la bella colonna sonora di Steven Price che fa da contrappunto ai momenti più salienti diventando perfetta nei climax vengono annientati dalle parole che purtroppo non sono mai alla stregua dell’eccellente lavoro tecnico.