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The Bleeder di Philippe Falardeau – Venezia 73, Fuori concorso: la recensione

Curioso che The Bleeder piaccia ai detrattori di David O. Russell, proprio quando il Quebechiano Philippe Falardeau tenta di assimilare la superficie più evidente del cinema di Scorsese, probabilmente il punto più debole di quello realizzato dal regista di American Hustle, “specializzato” in opere che girano a vuoto, che si sfrangiano l’una sull’altra, incomplete, discutibili, sciatte e visuali, derivative certamente, ma affidate alla furia delirante dei suoi interpreti, e sopratutto in lotta costante con il suo autore e le sue in-capacità.

Ha gli stessi difetti questo The Bleeder e probabilmente solo quelli, a meno di non ingannarsi (e ingannare costantemente i lettori) con la solita manfrina sulla sincerità, sulla sostanza popolare del cinema, sulla vitalità di alcune mitologie, sugli ultimi e i perdenti al centro dello schermo, sulla storia con la esse minuscola, spinta ai margini da quella ufficiale.

The Bleeder non appassiona affatto, se non per quell’effetto “meme” che emoziona un pubblico rimbecillito dai sistemi di condivisione di massa, dal cinema particellato su youtube, dalla musica di Bill Conti sentita centinaia di volte, da Rocky Balboa, dagli anni settanta confezionati ad hoc per una nostalgia più vicina alla morte che alla vita.

Se c’è una lotta in corso, non è quella biografica di Chuck Wepner, pugile sfruttato come fenomeno da baraccone e vicino al titolo dei pesi massimi per una sfida all’ultimo sangue con Muhammad Ali, ma quella tra Falardeau e la maschera di Liev Schreiber, spinta al massimo fino all’autocombustione e capace di costruirsi il proprio film fatto di menzogne, mitomania e un continuo girare a vuoto.

Con un autore così scialbo a Schreiber non resta che prendersi a pugni e sanguinare.

C’è più di una scintilla nei suoi occhi, ed è quella attivata dalla necessità di essere amati, perché il suo Chuck Wepner parla una  lingua respingente e patetica che conosciamo bene, sperimentata ogni giorno nel circo della comunicazione.

Se c’è un interstizio attraverso il quale puntare lo sguardo questo risiede nel grado di intensità che il corpo di Schreiber, abbandonato a se stesso, riesce ad attivare nel confronto spietato con l’immagine stessa della memoria trasformata in memorabilia. In quel momento il sangue può anche sgorgare

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