Home alcinema The Boy di William Brent Bell: perturbante per finta

The Boy di William Brent Bell: perturbante per finta

(L-R) JIM NORTON and DIANA HARDCASTLE star in THE BOY

Autore del demenziale involontario The Devil Inside, William Brent Bell aveva aggiustato il tiro con Wer, scritto a quattro mani con Matthew Peterman, già a bordo per il film precedente. The Boy si avvale della sceneggiatura dell’esordiente Stacey Menear ed è un ulteriore passo indietro. Quello che accomuna i lavori di Bell è la riproposizione di motivi, figure e più storie del cinema horror, nel tentativo di rileggerne le coordinate attraverso un punto di vista “altro”, quasi che la dimensione psicologica fosse un grimaldello con il quale scassinare il cinema di genere dall’esterno. Esorcismi, licantropi, bambole e l’ipotesi che sotto il dispositivo fatto di regole e convenzioni si nascondano volti e storie umanissime.
Resta da capire se lo spazio per questi volti sia davvero sufficiente rispetto al modo in cui le convenzioni, nel cinema di Bell, rimangono tali mangiandosi il film, senza alcuna zampata significativa.
Leggevamo stupefatti alcune recensioni su The Boy, l’accoglienza più che benevola della stampa “di settore” italiana ci ha spinto a riflettere sul valore ormai nullo dell’attività critica, sepolta come è da pubbliredazionali tout court, quasi tutti pubblicati in anteprima, quasi tutti aderenti alle linee guida indicate dal materiale stampa, quasi tutti decisi dalle agenzie di buzz marketing.
La critica forse non “corre sul web”, se si considera la proliferazione di soggetti editoriali concepiti come aggregatori di informazioni oppure devoti alla prassi partecipativa, quella che raccoglie pubblicità da una parte mentre dall’altra il desiderio selettivo degli utenti fornisce gratuitamente i contenuti, in un’arena dove chiunque può dire quello che vuole, un po’ come su facebook.
Tra l’incudine e il martello ci preme dire che The Boy è un film inerte dalle premesse fino alle conclusioni, gioca con l’inanimato secondo un tracciato lunghissimo nella storia del cinema horror per poi popolare quei simulacri con la presenza di una dimensione psichica che vorrebbe raccontarci le radici del male. Da Alberto Cavalcanti a John Carpenter, da Mario Bava a Sean S. Cunningham, da Hitchcock a Rod Serling, Bell assume passivamente le sedimentazioni di un genere.
Difficile capire se quei twist narrativi che non sono effettivamente tali, siano frutto dell’arroganza o di un’ingenuità altrettanto banalizzante e intollerabile, ma come accade sempre più spesso per gli horror di recente produzione, la distanza con la realtà (percettiva, psichica, politica) diventa abissale e il gotico famigliare di The Boy racconta solamente mondi ancorati alle regole, rigidissime e senza scampo, della dimensione citazionista, senza scalfire il nostro modo di vedere oppure suggerirci quello scambio perverso tra media e morte, famiglia e media. Nello scambio tra la bambola Brahms e l’individuo che si nasconde dietro lo stesso simulacro, sembra entrare in cortocircuito quello scarto che si verifica tra creatore e filiazione creaturale per come la conosciamo da Mary Shelley in poi. La ricostruzione della bambola, oppure l’occhio che rotola fuori dal bulbo, allude chiaramente ai pezzi di un golem formato famiglia attraverso il quale ricostruire la propria genesi, come coazione a ripetere in quel gioco palindromo del vedersi visti. È imbarazzante dirlo, ma basterebbe tornare indietro di settanta anni, riguardarsi The Ventriloquist’s Dummy di Cavalcanti e magari suggerire a William Brent Bell che il suo film, oltre a non aggiungere molto a quelle immagini davvero perturbanti, è di una noia terribilmente convenzionale. Ed infine, a proposito di “inanimato”, che fine ha fatto Larry Cohen e quelli come lui, capaci di dar vita ad un barattolino di gelato per scatenare una guerra immaginale con le ossessioni dell’America “king size” di quegli anni?

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