Il corpo a corpo che Alyson Klayman ingaggia con Steve Bannon è attendista e per questo apparentemente debole. The Brink – Sull’Orlo dell’Abisso infatti non colpisce frontalmente il soggetto che pone al centro della sua attenzione documentaristica, anzi, lo toglie dall’eventuale angolo del confronto dialettico e lo mette su un piedistallo retorico, inquadrato in uno spazio privo di dati contrari e di antagonismi politici. Il regista sembra in questo modo cedere al fascino delle narrazioni dello stratega populista e ai suoi misteriosi atteggiamenti o almeno concedergli in misura cortese lo spazio riflessivo per propugnare i suoi progetti riformistici al pubblico virtuale. È questa solo un’apparenza però, che, pur non essendo presto contraddetta (i ribaltamenti e i risultati concettuali sono ad appannaggio dei minuti finali), alla fine si rivela parte iniziale di un piano studiato dal documentario per trovare il teorico di estrema destra con la guardia abbassata e le certezze capovolte.
Klayman prende in contropiede la sicurezza mefistofelica di Bannon solo dopo averlo accompagnato (in passività ma non per questo senza trasporto politico) lungo il percorso di presentazione e di arruolamento europeo per la formazione della sua ideale task force intergovernativa populista. Più che in un pedinamento incitato da una volontà di inchiesta il regista lo segue in un accompagnamento tranquillo, escluso nelle riunioni “segrete” e segnato dalla quotidianità gestuale degli atteggiamenti, calato negli incontri con il suo pubblico adorante e attento nei momenti decisionali con i collaboratori stretti. Klayman non esplica mai la ragione d’essere del suo punto di vista e della sua motivazione, e lascia sempre a Bannon la gestione comunicativa della scena: è lui che manda via e chiama a sè la telecamera, sceglie quando interpellarla, cosa sottolineare, cosa intensificare. Di fronte al riconoscimento della neutralità del medium, lo stratega cerca di piegarlo a sé per i propri scopi. Sarebbe già questa una lezione dal vivo sull’operato di un genio della comunicazione.
Lo sguardo di Klayman però non si ferma all’attestazione cronachistica della forza, dell’intenzione e della morale di Bannon: riprendendone la reazione dopo la notizia della sconfitta della propria strategia alle Elezioni di metà mandato, il regista completa la descrizione silenziosa del personaggio politico con l’attestazione della fallibilità del suo sistema comunicativo. Per farlo il documentario non inserisce in campo neanche una tesi della fazione politica vincente (opposta all’estrema destra), neanche una presenza corporea; contrappone invece al corpo (temporaneamente?) caduto del teorico una voce femminile galleggiante sopra il tappeto luminoso della capitale: comunicando quindi la fragilità dell’apparente punto forte (il carisma della figura solitaria, cervellotica e arrogante) di fronte alla potenza di un cambiamento desiderato da una moltitudine apparentemente invisibile e invece viva sopra gli schemi dominanti. Anche se le ultime immagini (riprese in Italia) chiamano con urgenza al continuo della riflessione politica, l’anatomia del documentario si rivela in ultimo speranzosa autopsia.