Dominic Savage non ha mai smesso di osservare la suburbia londinese e per quanto il suo cinema televisivo sia scarsamente conosciuto nel nostro paese, la sua non è una formazione bergmaniana, come ci è capitato di leggere da parte di una critica pagata per sciorinare sciocchezze un tanto al chilo o peggio ancora, per tradurre le recensioni pubblicate oltreoceano. Il tema famigliare e le “scene da un matrimonio” non sono sufficienti per tracciare un parallelismo così becero e superficiale, mentre titoli come “Love+Hate” e “Born Equal” ci servono a ricordare quanto le produzioni del regista britannico fossero da tempo così vicine ad autori come Alan Clarke, che del dramma televisivo ha fatto uno strumento di ricerca antropologica molto preciso, legato a quella tradizione inglese che include cineasti come Peter Watkins e Ken Loach e che hanno saputo sfruttare al massimo i supposti limiti del formato.
I due film citati sono quelli più vicini a “The Escape” e mentre “Love+Hate” vedeva alla direzione della fotografia Barry Ackroyd, collaboratore frequente di Ken Loach, il nuovo film coinvolge Laurie Rose, uno dei nomi più interessanti del nuovo cinema inglese, sodale di Ben Wheatley fino al recente Free Fire.
Gemma Arterton è al centro di un ritratto ravvicinato che sfrutta e in un certo senso rovescia la fisicità ribelle dell’attrice di Gravesend, per come l’aveva già compresa e messa in scena J. Blakeson. Animale in gabbia, Tara non riesce a dar corpo alla sua infelicità e subisce, ogni giorno, la presenza del marito, quella dei figli e i numerosi doveri coniugali, come una dimensione sempre più estranea. Gesti e movimenti sono automatici e il volto, indagato con spietata attenzione da Savage, è l’unico elemento del corpo che riesce a raccontarci quella verità indicibile che Mark (Dominic Cooper), il marito di Tara, vorrebbe scoprire e identificare.
Savage evidenzia uno stato di paralisi con una modalità che desume certamente dalla lunga esperienza nel documentario sociale, ma anche dalla drammatizzazione “cameristica” e di tono volutamente minore delle produzioni BBC, lasciando però completamente fuori il contributo della parola e orientandosi verso una scrittura che pur partendo dalla sua costrizione, mette al centro il corpo e il gesto negato, come stumento di osservazione della sofferenza e della realtà.
Tutti i personaggi del film, inclusa la breve apparizione di Jalil Lespert nel breve sogno infranto parigino, prima ancora di esserlo nel senso drammaturgico del termine, sono corpi sospesi in una posizione di confine, dove la maschera sociale, la menzogna, il lavoro, il menage matrimoniale, impediscono la formazione del monologo interiore.
Potrebbe essere un cinema “soggettivo” quello di Savage, ma la sua forza risiede al contrario nella capacità di non scendere mai facilmente a patti con quell’avvicinamento impossibile oltre la barriera del rituale sociale; una mancanza di empatia che non è programmatica, ma legata alla disperata ricerca di quel senso che Tara, Mark, Philippe non riescono a trovare se non ferendosi e cercando una finestra attraverso il corpo, il rifiuto, il gesto violento, la menzogna, quest’ultima come unica funzione apparentemente possibile della parola.
Il lavoro di Anthony John e Alexandra Harwood sulle musiche in questo senso segue un procedimento non dissimile, da una parte con l’uso di soundscape quasi subliminali che impostano un senso continuo di minaccia nei luoghi dell’aggregazione famigliare e quotidiana, dall’altra servendosi di un tematismo emozionale, spesso associato alla soggettiva di un viaggio che procede avanti e indietro e che pur essendo direttamente associabile allo sguardo di Tara, assume la funzione disincarnata e meditativa di un pensiero sconosciuto e indicibile.
Questa decostruzione delle relazioni affettive tra immagine e musica viene elaborata da Savage con numerose variazioni che sono anche dei formidabili depistaggi dello sguardo, dal già citato segmento parigino dove il romanticismo è semplicemente un miraggio e nella controversa relazione di Tara con la maternità, evidenziata da quella bellissima quanto terribile fuga dagli affetti che lascia il film aperto sull’abisso.
Savage riesce ad avvicinarsi con grande sensibilità a quel disancorarsi progressivo della psiche dalla realtà sociale di riferimento, grazie ad un cinema ellittico, sottilissimo nel servirsi dei continui salti narrativi come tentativi di accordare la propria voce interiore ad una realtà che muta.
Il breve cameo dell’apolide Marthe Keller è in questo senso uno dei rari momenti in cui la coscienza si fa spazio nel buio interiore. Anche questo potrebbe essere un sogno e il modo in cui dall’abbraccio con la vecchia e saggia signora, Savage filma l’uscita di Tara verso la luce dove un annichilito Mark l’aspetta, ha davvero la qualità del “salto” e del racconto onirico.
In questo dolorosissimo girare su se stessa di Tara, la salvezza è sospesa in un gesto o in una scelta che non è possibile indicare né raccontare.