domenica, Novembre 24, 2024

The Green Inferno di Eli Roth: la recensione

La festa di morte di Eli Roth almeno in superficie è sopratutto una festa. Con l’intenzione esplicita di omaggiare l’occhio selvaggio di quel cinema che aveva preso le mosse dagli shockumentary di Jacopetti e Prosperi, per certi versi in aperto contrasto, cita Paolo Cavara, i cannibali feroci di Lenzi, la trilogia di Ruggero Deodato, ma anche il Jess Franco di Mondo Cannibal con Lorenza Izzo che per un attimo sembra impersonare la dea bianca. Girato in un digitale ancora più sporco e approssimativo di The Sacrament, riduce al minimo il dispositivo metavisivo che rappresentava l’ossatura del film prodotto per Ti West e quindi si allontana sia da L’occhio selvaggio di Cavara che da Cannibal Holocaust. Dello scambio tra interno ed esterno che il film di Deodato innescava con la materia mediatica, rimane un divertissment ludico sui dispositivi mobili, tra gps e smartphone, la cui riflessione si limita alla reiterazione di gesti e modi in un contesto totalmente alieno. Il contrasto è quindi volutamente demenziale e denuncia da subito l’obiettivo principale del film, quello di giocare al massacro con i simboli della generazione connettiva.

È interessante in questo senso soffermarsi un attimo sulle reazioni che la stampa statunitense e in parte anche quella italiana, hanno avuto in relazione al modo in cui Eli Roth rappresenta i nativi dell’Amazzonia. Se da una parte viene considerato troppo seriamente il rovesciamento percettivo che Roth allestisce, quasi che la mattanza annunciata fosse un’elegia negativa alla Romero sul declino della cultura occidentale, dall’altra c’è chi non ha digerito l’assimilazione degli indigeni del bacino peruviano con i rituali legati al cannibalismo, sentendosi in dovere di specificare il confine labilissimo con una rappresentazione razzista di quelle culture, di fatto pacifiche e isolate per scelta, salvo esser state obbligate dai missionari ad abbandonare la loro prassi rituale, massacrati dai trafficanti di droga, allontanati dalle multinazionali per i loro interessi ed infine decimati da una serie di malattie comuni rispetto alle quali non hanno difese immunitarie.

Roth si è giustamente irritato e in un botta e risposta con il Business Insider ha respinto al mittente i giudizi più aspri, dicendo sostanzialmente che se il suo film offrisse davvero il destro per una mistificazione antropologica ai limiti del razzismo, allora dovremmo considerare la violenza come un fenomeno successivo ai film di Georges Melies. Ma l’aspetto su cui si è soffermato più a lungo è quello dell’attivismo praticato secondo l’istinto del gregge: “Il mio film è dedicato allo Slacktivism – ha scritto Roth al Business Insider – ovvero quella prassi secondo la quale le persone condividono sui social media cause e petizioni rispetto alle quali non conoscono niente. L’idea complessiva dei ragazzi che vogliono salvare la foresta pluviale per poi essere mangiati vivi dagli indigeni che credono di aver salvato, è una metafora dedicata a tutte quelle persone che sono divorate dalla propria vanità senza alcuna vergogna, cercando consenso e conferme sui social media. I ragazzi del film si preoccupano, ma sono molto più preoccupati di esibire la loro stessa preoccupazione“.

Nell’invito di Roth a prendere le cause sociali con serietà e quindi a considerare il suo film per quello che è, ovvero un film, c’è tutto lo spirito anarcoide e liberatorio che gli consente di prendere a calci un manipolo di ragazzini supponenti il cui universo semantico è costellato di riferimenti svuotati, come il volume di Moby Dick nel cassetto di Justine, che del libro ha solo la forma esterna ma è in realtà una scatola porta oggetti.

Esattamente come i loro ideali, la struttura del film d’avventure viene svuotata da qualsiasi tensione epica ma anche tragica, per il modo in cui Roth si diverte a giocare con i simboli della cultura pop, maciullandoli a tutta velocità. Lo sguardo sui rituali cannibalici è quindi modellato su quello del pregiudizio dei suoi giovani protagonisti, un gioco che Roth reitera all’infinito inclusa l’esilarante reazione di tre membri delle nazioni unite durante la falsa testimonianza di Justine.

Lo stesso elemento gore che ha spinto la commissione censura italiana a vietare il film ai minori di diciotto anni, potrebbe far pensare ad una strategia voluta da Koch Media nel tentativo di tirare dentro la sala proprio quella generazione a cui il film si riferisce. Se ormai i divieti non hanno più quella forza, anche strategica, che fino agli anni ottanta costruivano intorno ad un film un recinto quasi mitico e cultuale, considerate le numerose possibilità alternative per accedere ai materiali, ci sembra del tutto delirante il tentativo di far apparire intollerabile un film che utilizza lo schifo e il disgusto con quella trivialità necessaria che in realtà impila senza soluzione di continuità teen movie, commedia demenziale e gore.

La tarantola che morde il pisello ad uno dei ragazzi; un altro che nel tentativo di cercare il gps viene falciato dall’elica ancora in movimento dell’aereo caduto; la vegana che prima scorreggia mentre se la fa addosso e poi è costretta a mangiarsi l’amico appena cotto nei forni di argilla; i cannibali che successivamente se la mangiano con il ripieno di cannabis; i corpi smembrati dei ragazzi che vengono conservati, lavorati e messi sotto sale mentre le vecchie del villaggio cantano. Sono tutti elementi che servono a perpetrare un avvitamento continuo tra generi che Roth ripercorre per esasperazione, quasi fosse l’unica vera dimensione politica  per sbarazzarsi dell’horror vacui delle generazioni social.

Del resto, al netto di un possibile gusto per l’affabulazione che accumuna quel mix di menzogna e verità al terrorismo autoritario e finto situazionista di Ruggero Deodato (il corto circuito mediatico per vedere quanto è stolto il pubblico medio), lo stesso Roth racconta che i primi ad essersi divertiti per il modo in cui sono stati rappresentati, sono proprio gli abitanti dei villaggi con cui dice di essere entrato in contatto, “pensavano fosse molto divertente – ha detto Roth – perché capivano perfettamente la differenza tra la vita reale e i film, anche se gli abbiamo mostrato le videocamere per la prima volta

Tra il serio e il faceto, Roth fa finta di fare il verso a Herzog divertendosi a preparare il pubblico con aneddoti da luna park, chiudendo il suo film in un doppio sogno dove all’esotismo dei campus che vogliono salvare il mondo ne contrappone uno fatto di segni e tradizioni (i colori delle tribù, il giaguaro sacro) nascoste tra le pieghe di questo divertentissimo rollercoaster festaiolo.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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