Apolide tra Grecia e sudafrica, Etienne Kallos ha frequentato i festival internazionali con i suoi cortometraggi, vincendo l’edizione 2009 di quello veneziano nella sezione Corto Cortissimo. “Firstborn” affrontava un contesto simile a quello di “Die Stropers”, il suo primo lungometraggio presentato quest’anno a Cannes nella sezione Un Certain Regard. Entrambi in lingua Afrikaans, esaminano da vicino la cultura sudafricana attraverso un racconto identitario che in qualche modo fa i conti con il retroterra rurale del paese.
Kallos entra dentro un territorio minato e non mette al centro questioni come il cosidetto genocidio boero e tutto il fenomeno degli assalti alle fattorie, per privilegiare la descrizione della vita comunitaria in un contesto post-coloniale, che secondo il suo punto di vista ha vissuto una vera e propria emarginazione in termini rappresentativi. Più dell’apartheid o della formazione ultranazionalista a cui sono associati, Kallos osserva aspetti legati allo scollamento identitario sofferto dalle nuove generazioni, totalmente estranee al precedente regime e cresciute entro una cornice cristiano-patriarcale.
Juliana Venter e Morne Visser interpretano una coppia cristiana dedita alla vita dei campi e alla preghiera. Il loro fortino è lo scenario di un costante atto di resistenza nei confronti di tutto quello che rappresenta possibile minaccia per lo sviluppo di una comunità chiusa entro le proprie tradizioni. L’estraneo, lo sconosciuto, il diverso può entrare al prezzo di un’integrazione forzata. L’unico figlio naturale della coppia è il quindicenne Janno (Brent Vermeulen) sul quale pesa il futuro dell’intera fattoria, descritto da Kallos con estrema vicinanza alle dinamiche famigliari, soprattutto attraverso il rapporto conflittuale con l’anziano patriarca e il suo acceso senso del possesso. Alle tre sorelle minori, tutte adottate, si aggiunge il coetaneo Pieter (Alex van Dyk), affidato alla coppia e con un difficile passato alle spalle. Concepito da una prostituta minorenne e dal padre tossicodipendente adesso deceduto, il giovane ha vissuto ai margini di questa società seclusa, rifiutando qualsiasi assimilazione identitaria. Per Kallos diventa l’occasione per introdurre un personaggio che funzioni come coscienza nera dello stesso Janno, tanto da infrangere quel delicato processo di formazione maschile su cui si reggono le fondamenta dell’intera comunità.
Le tensioni che il regista sudafricano mette in scena sono numerose, a partire da quella più sottilmente “thriller” che scorre sottopelle, come accade nel nuovo film di Laurent Cantet , ovvero privilegiando i segni, le rotture e l’impercettibile educazione alla violenza che sottende la vita legata alla famiglia nucleare.
Mentre il rapporto tra il padre e il nuovo figlio adottato si basa sull’esacerbata violenza rivolta verso un’estraneo da piegare al rispetto delle regole comunitarie, quello con Janno è innervato da una tensione sessuale inespressa che il giovane erede Afrikaaner rifiuta con forza, esprimendo il contatto fisico solo con il gesto estremo della lotta.
Kallos non spiega né si spinge oltre la dimensione fenomenologica, preferendo un cinema immerso nel silenzio e nel potente immaginario biblico alimentato dalla fotografia del polacco Michal Englert, reduce dal lavoro per Twarz della conterranea Malgorzata Szumowska.
Senza cedere alle scorciatoie di un cinema che nasconde la sua debolezza dietro al segno esibito, “Die Stropers” è al contrario opera affascinante e oscura che riesce a penetrare la coscienza di una comunità con l’accuratezza del miglior cinema della realtà, quello che alla documentazione preferisce il non detto e l’essenza di un gesto.
Quando Pieter avrà trasmesso a Janno un irrefrenabile senso di inadeguatezza rispetto alla realtà dove è cresciuto, il film imboccherà una strada sottrattiva estrema tanto da lasciar emergere un vero e proprio trasfert di energie tra i due ragazzi, con Pieter ad occupare progressivamente lo spazio centrale e identitario destinato all’erede naturale.
La parola di Dio, il sangue e il seme di cui parla la madre di Janno, collante invisibile di tutto il nucleo, può trasmettersi attraverso un insieme di regole accettate. L’improvvisa scomparsa di Pieter assimila la sua figura a quella di un demone, ma anche di una vittima, un rimosso che per sopravvivere deve mimetizzarsi fino alla disintegrazione estrema, Caino che diventa Abele.
“Die stropers” parla di un’altra forma di separazione, quella da qualsiasi eccedenza che rappresenti una minaccia per la conservazione dei propri confini.