lunedì, Dicembre 23, 2024

The House That Jack Built di Lars Von Trier: la recensione, Cannes 2018 – Fuori Concorso

Cast internazionale per il nuovo film di Lars Von Trier fuori concorso al Festival di Cannes 2018, intitolato “The House That Jack Built“. Matt Dillon interpreta il personaggio principale, un serial killer, ed è affiancato da Bruno Ganz nella parte di Verge, personaggio misterioso che scandaglia il flusso di coscienza di Jack attraverso un dialogo recursivo. Nella parte delle sfortunate vittime che incontreranno il sadico omicida sul loro cammino, tutte attrici: Uma Thurman, Siobhan Fallon Hogan, Sofie Gråbøl e Riley Keough, quest’ultima alla prima esperienza con il regista danese.

Il film si ambienta negli Stati Uniti durante gli anni settanta, segue le vicende di Jack e la sua definizione progressiva come killer seriale. Il punto di vista è il suo e l’approccio con l’omicidio è osservato secondo una dinamica creativa. Ogni delitto per Jack è opera d’arte irripetibile, mentre il suo rapporto disfunzionale con la realtà diventa sempre più ingombrante e origine di numerosi problemi con il mondo esterno. Nonostante l’intervento della polizia si faccia imminente, ma quasi sempre solamente potenziale, contro ogni logica cercherà in tutti i modi di affrontare sfide sempre più difficili. La personale condizione di Jack viene descritta attraverso la conversazione con Verge, personaggio che accoglie questa lunga confessione, tra ambizioni filosofiche e autocommiserazione infantile, oltre alla descrizione approfondita delle sue prossime mosse. “Ho sempre fatto film con donne buone – ha dichiarato Lars Von Trier – adesso ne ho fatto uno su un uomo cattivo“.

Invertendo l’ordine dei fattori il carico di insopportabile e programmatica misoginia rimane sostanzialmente lo stesso, qui finalmente esplicitata per quella che è. Le ambizioni metanarrative vengono sciorinate insieme alla consueta abilità che Von Trier dimostra di avere con le carte da gioco, destrezza degna del Silvan migliore.

Accolto in modo controverso durante il festival, con gli spettatori disgustati e in fuga dalla sala per il contrasto tra violenza e le ostentazioni grottesche, il film è sostanzialmente una commedia nera, strutturata come una lunga conversazione tra Jack e l’intervistatore invisibile interpretato da Bruno Ganz. Si sdipana attraverso cinque episodi “scelti” nella “carriera” di Jack come killer seriale, dove alle sue convinte affermazioni nell’aver selezionato in modo casuale la sequenza di delitti, l’invisibile coscienza di Verge obietta che tutte le donne descritte, a partire da una snobbish Uma Thurman in panne con la macchina, evidenziano la loro idiozia per esaltare le capacità cognitive del nostro. L’aspirazione artistica e il grado di intoccabile qualità intellettuale che accompagna le azioni di Jack è lo smontaggio apparentemente più interessante con cui gioca Von Trier. Memore delle ruminazioni di Julian Priest, costringe Jack a giocare con la postura delle sue vittime per inviare anonimi dispacci fotografici ai quotidiani locali, firmandosi Mr. Sophistication, mentre “Fame” di Bowie incalza per dirci qualcosa sulle capacità associative di Von Trier nel creare brevi sketches esplosivi regolati dai tempi della commedia, molto simili all’improvvisa rivelazione di “Burning down the house” nel secondo capitolo di Nynphomaniac, mentre una vendicativa Charlotte Gainsbourg si allontana, lasciandosi alle spalle un’auto in fiamme.

Jack, nello sforzo di apparire intelligente a tutti i costi, discetta su qualsiasi cosa, dai campi di concentramento all’architettura, inclusa l’atrocità come elemento connesso alla creazione artistica e alla “flagranza” del cinema, momento didascalico e di messa in vacca più che in abisso, come il finto godardismo post-digitale di Nymphomaniac. Qui sono i film dello stesso Von Trier ad essere ri-mediati come traccia esplicativa, parodica, ludica ed infine nella forma autocelebrativa dello showreel, ovviamente in una dimensione totalmente raggelata, come quella dell’intervista. Più che un sigaro nell’occhio dello spettatore, una mazzata sui suoi coglioni.

Smembramenti, crudeltà sugli animali, massacro e stoccaggio delle vittime a fianco di una fornitura di pizza surgelata. Jack è un nevrotico, anafettivo deficiente, Von Trier lo sottolinea proprio nel momento in cui forza il modello acquisito del killer seriale verso la parodia dell’intelligenza sovrumana ostentata da Hannibal Lecter, con cui il personaggio interpretato da Matt Dillon condivide la passione per Glenn Gould. L’America è il peggiore dei mondi possibili, la società è cattiva e senza un briciolo di empatia, figuriamoci se può comprendere la bomboniera del welfare state danese, diamo un martello agli idioti e tutto si manifesterà nella sua trasparente opacità. 

Cinque parti e un epilogo condotto convulsamente con la consueta, talentuosissima per carità, grandeur, nel miscelare “growl”, estetica punk, esoterismo per le masse, storia dell’arte, punto terminale della stessa, sofferenza umana e contemplazione del genio insieme alla sua furbissima e programmatica decostruzione. Furbissima perché non si allontana di un millimetro dalla necessità di definire un grado irriducibile di artisticità. Quale era allora, già dalle origini, la differenza tra “Forbrydelsen element” e il cinema di Tarkovskij se non il color seppia e la patina sopra l’immagine, contro una tragica, difficilissima, disperata ricerca della flagranza nel tempo della stessa?

 

Fabiola Destrieri
Fabiola Destrieri
Critico cinematografico. Si occupa della relazione tra arte e cinema. Ha collaborato con alcune riviste del territorio milanese e con alcune gallerie d'arte.

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