The Imitation Game comincia dalla persecuzione di Alan Turing, arrestato negli anni ’50 per omosessualità, in Inghilterra considerata reato fino al 1967. Il matematico britannico viene interrogato da un detective che gli chiede quali segreti nasconda la sua condotta, è l’inizio di una vicenda narrata attraverso una serie di flashback nidificati, che porrà al centro il coinvolgimento di Turing con i servizi segreti britannici durante il secondo conflitto mondiale, a capo di un gruppo di crittoanalisti di diversa provenienza universitaria, tra cui una donna, tutti assunti con il compito di decifrare i messaggi criptati della Germania Nazista e prodotti da un dispositivo elettromeccanico noto come Enigma.
Il norvegese Morten Tyldum costruisce un collegamento tra la vita personale e quella professionale di Turing, attraverso tre momenti significativi della sua esistenza; l’interrogatorio a Manchester del 1951, la sua adolescenza durante gli anni della scuola intorno agli anni ’30 e una parte centrale, la più rilevante, relativa agli anni della guerra.
Tre blocchi narrativi scritti da Graham Moore sulla base del libro di Andrew Hodges, pubblicato anche in Italia con il titolo di “Alan Turing: Storia di un enigma“, e che nonostante i numerosi stimoli a disposizione, non riescono ad uscire dai confini di una messa in scena convenzionale, allestita per tirar fuori il massimo di intensità solo dalle prove attoriali.
Un’occasione mancata, se si pensa a tutti gli aspetti che Tyldum/Moore portano in superficie imitando la struttura di un rebus, ma con tutte le soluzioni a portata di mano, a causa di una dimensione didascalica e teatrale che affida quasi sempre al dialogo la funzione risolutiva.
Non si tratta semplicemente del contrasto tra le norme di una società chiusa e incapace di interpretare la diversità, ma del modo in cui la stessa alterità viene spinta sullo sfondo e assorbita da un sistema rappresentativo che imita lo spazio drammaturgico di certo cinema britannico (Il discorso del re, per esempio), non certo per disinnescarlo o al limite, per restituire sul piano visuale un insieme di norme e convenzioni utili ad elaborare lo spirito del tempo, al di là delle scenografie curate da Maria Djurkovic, specializzata in ricostruzioni più o meno filologiche (The Hours, The Invisible Woman, Mamma Mia!, Tinker Tailor Soldier Spy)
Gli aspetti che non ci convincono dell’operazione sono legati al modo in cui il melodramma interagisce con gli eventi della Storia passata e presente, senza che la seconda incida sul primo in modo esplosivo; lo sguardo di Tyldum è terribilmente vittoriano, e tutti gli aspetti che delineano progressivamente l’estraneità di Turing rispetto alla società che lo circonda, rimangono abbozzati in modo da risultare del tutto forzati.
Solamente Benedict Cumberbatch riesce ad assorbire la tensione e la complessità di Turing attraverso un’interpretazione efficace, che quando non è affidata troppo alla parola o al pezzo di bravura, si esprime attraverso il movimento, i numerosi tic, i piccoli accenni alla sindrome di Asperger come origine della sua difficoltà a relazionarsi con gli altri, l’omosessualità visualizzata attraverso l’inadeguatezza ad un mondo fortemente genderizzato, il cui contrasto è percepibile dalla postura di Cumberbatch e dai suoi confronti con la Knightley, tra cui tutta la sequenza del ballo dopo la promessa di matrimonio.
A neutralizzare questi aspetti ci pensa la costante pressione della parola, concepita per svelare quello che non ci viene mostrato, incluso il continuo riferimento al “gioco dell’imitazione” come didascalia a margine sulla diversità delle attività cognitive umane rispetto alla funzione imitativa di una macchina, vero e proprio refrain di tutto il film.
Rimangono sullo stesso livello illustrativo anche tutte le sequenze che interessano direttamente la prassi di decrittazione dei messaggi nel trasferimento di codici da Christoper, il macrocomputer ideato da Turing, a Enigma, il dispositivo Nazista utilizzato per cifrare i messaggi. Se per un momento la messa in scena assume un certo fascino nel visualizzare il contrasto tra una guerra sul campo, mostrata attraverso i filmati di repertorio, e un conflitto risolto progressivamente attraverso il controllo sui dati, il ponte che viene stabilito con il presente non è certo un’indicazione sottile, ma il segno chiaro e scoperto di una drammaturgia che mette tutto in campo e che di volta in volta si sposta dallo spazio teatrale alle atmosfere di un racconto alla John le Carré, non andando mai a fondo.
La storia di Alan Turing avrebbe consentito di lavorare in modo più incisivo sulla paranoia di un’intera nazione e sul modo in cui questa modifica la vita intima delle persone, nella relazione tra esigenze collettive e affermazione personale e con la possibilità di giocare in modo più ambiguo sullo slittamento di senso; “The Imitation Game” rende invece tutto esplicito, riducendo spesso le relazioni dei personaggi entro un contesto che slega l’immagine da una qualsiasi relazione con il fuori campo o con una dinamica causale; i conflitti o i traumi sono quasi sempre spiegati, prima o dopo l’immagine, quasi fosse separata da un qualsiasi punto di vista.
Quando Joan Clarke (Keira Knightley) compare da un’altra vita nell’appartamento di Turing, i segni della castrazione chimica imposta dal governo Inglese per evitare la galera al matematico britannico non intaccano la superficie visiva e il nostro modo di vedere; se c’è un trauma in atto questo è nell’abilità performativa di Cumberbatch, abbastanza potente almeno fino a quando la parola che ci spiega tutto quanto, si salda definitivamente con le didascalie conclusive.