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The Look of Silence di Joshua Oppenheimer: lo sguardo e il silenzio delle vittime

Joshua Oppenheimer ha impiegato più di dieci anni della sua vita per raccogliere il materiale audio-visivo che ha contribuito alla realizzazione dei suoi ultimi due lavori, girando una parte di The Look of Silence nel 2012, subito dopo aver ultimato il montaggio di The Act of Killing. I due film sono stati concepiti in parallelo, come risultato di un percorso di indagine che è cominciato nel 2001 in terra Indonesiana, pochi anni dopo la caduta di Suharto. Oppenheimer raggiunge una piantagione di palme da olio per intervistare un piccolo sindacato di lavoratori neocostituito, in un momento in cui il regime aveva allentato il controllo repressivo sulla popolazione, trovando un gruppo di persone schiacciate dalla paura e vessate dalle condizioni inumane imposte da una multinazionale Belga, proprietaria della percentuale maggiore di quote sulla piantagione.

Parte del materiale filmato tra il 2001 e il 2002 costituirà la base per The Globalisation Tapes, un documentario realizzato dal regista texano in digitale e che segna l’inizio della sua ricerca sul capitolo più nero di tutta la storia Indonesiana; saranno gli stessi lavoranti che lo inviteranno a tornare, per stimolarlo a comprendere le origini storiche di una paura così pervasiva.

Comincia così il viaggio a ritroso di Joshua Oppenheimer, alla ricerca delle tracce visibili e invisibili lasciate dal regime di Suharto, osservato attraverso i testimoni sopravvissuti al genocidio sistematico che tra il 1965 e il 1966 seguì l’eliminazione del Partito Comunista Indonesiano. Oppenheimer pur partendo dai primi contatti con i parenti di alcune vittime, non allinea la soggettiva storica alla loro percezione, ma sceglie la strada più impervia disinnescando i rischi di una costruzione a tesi e cercando le tracce più evidenti dei massacri nella rappresentazione metastorica dell’atto. The Act of Killing metteva in scena una reificazione del potere attraverso la sovrapposizione del nostro sguardo con quello dei carnefici, non certo la ricerca dell’evidenza documentale, quanto l’osservazione di un regime attraverso la sua immaginazione.

Le vittime in The Act of Killing, diventano parte del processo creativo, interpretate dagli stessi carnefici in un potenziamento soggettivo della memoria, scompaiono e vengono uccise due volte. The Look of Silence è il rovescio della palpebra, ma allo stesso tempo l’origine della ricerca di Oppenheimer, che è una continua messa in abisso delle due soggettive.

Ramli è il nome della prima vittima di cui il regista di Austin acquisisce informazioni, una figura che viene elevata a simbolo dai lavoratori delle piantagioni con cui entra in contatto, ma anche una delle prime ad essere massacrata davanti a testimoni oculari, un martire rimosso che nei decenni diventerà per il potere segno esemplare di intimidazione. Mentre la lunga ed estenuante ri-messa in scena di Anwar Congo e dei membri della Pancasila Youth, in The Act of Killing arriva per Oppenheimer dopo una quarantina di interviste, il contatto con Rohani, la madre di Ramli, e il suo secondo figlio Adi nato dopo i massacri del ’65, è del 2003.

The Look of silence comincia proprio con Adi che guarda le immagini registrate di una testimonianza, quella degli assassini di suo fratello, in una messa in scena che è identica alla rappresentazione degli orrori interpretata da Anwar Congo nel film precedente. Entro lo spazio che si frappone tra l’immagine televisiva e lo sguardo silente di Adi, Oppenhaimer sviluppa il suo nuovo film; l’immaginazione reificata del potere convive con quella rimossa delle vittime, in un difficile confronto tra memoria e paura che rileva la presenza di un potere invisibile attraverso l’impossibilità di parlarne.

La ricerca di quella verità interstiziale, tra rappresentazione e realtà, da Herzog sembra avvicinarsi maggiormente al metodo di Errol Morris, con il confinamento dell’elemento rappresentativo nella cornice dello schermo televisivo, il passaggio da una tragedia grottesca ad un’elegia tragica e il percorso di Adi che si fonde con quello di Oppenheimer nella ricerca di una verità che lega vittime e carnefici attraverso un legame complesso che ferisce la stessa famiglia di Rohani.

Durante le interviste che Adi conduce, svolge il suo lavoro come optometrista, impostando strumenti per la vista e sistemando lenti additive mentre pone alcune domande alle persone a conoscenza dei fatti sulla morte di Ramli; una sovrapposizione apparentemente simbolica ma sulla quale Oppenheimer non insiste, semplicemente cogliendo la qualità aptica dell’attività manuale, come un gesto di vicinanza di Adi nei confronti dei vecchi del villaggio.

Ed è proprio attraverso questa prossimità che la ricerca dell’uomo approderà ad una dolorosa agnizione, quella del legame indissolubile tra vittime e carnefici, non solo dopo aver appreso del coinvolgimento di uno zio ottuagenario nell’omicidio del fratello, ma anche nel racconto degli anziani del posto, sbilanciati tra collusione e paura, senso di colpa e desiderio di esorcizzare un peso morale devastante.

Durante uno dei racconti più terribili, Adi verrà a conoscenza di un gesto rituale compiuto dagli assassini, un esorcismo di ascendenza fondamentalista, che spingeva a bere il sangue delle vittime, come forma di purificazione da quella che veniva considerata la deriva comunista.

Se in The Act of Killing la testimonianza dei massacri avveniva attraverso un processo di catarsi rappresentativa, in The Look of Silence questo stesso processo si realizza attraverso la parola, il racconto orale, l’immaginazione dei carnefici che si contrappone allo sguardo silenzioso delle vittime.

 

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