domenica, Dicembre 22, 2024

The man from London di Béla Tarr

E’ possibile leggere nello speciale di approfondimento su Béla Tarr, le analisi su:

Dannazione
Satantango
Le armonie di Werckmeister
The Man from London
The Turin Horse

Un lungo piano-sequenza, la macchina da presa sembra galleggiare mentre sale dal basso lungo la prua di una nave da carico, ne osserva le tacche di profondità, arriva al parapetto e si allarga ad inquadrare la banchina affiancata da una rotaia. Ombre spesse si addensano, grate di luce disegnate dai lampioni scorrono spettrali davanti all’obiettivo, figure indistinte scendono dal traghetto, salgono sul treno, silenzio ovunque e sciabordio dell’acqua contro le spallette dell’attracco. Maloin (Miroslav Krobot) è il controllore del turno di notte, chiuso in una gabbia di vetro sopraelevata con vista sul porto assiste alla rissa fra due malviventi sbarcati dal traghetto, uno dei due affoga, nessun soprassalto emotivo nell’uomo che guarda, il suo viso è cupo, chiuso, impassibile. Bela Tarr non racconta le emozioni, inquadra la continuità temporale delle storie, la concentrazione sulla realtà dello schermo esclude il didascalismo delle immagini, il regista non è il demiurgo ma il mezzo che il cinema usa, la narrazione diventa incidentale, è pretesto per epifanie di segni di una lingua diversa, iconica, spesso misteriosa, ma non per questo meno seducente. Turbamento, inquietudine, movimento sotto una superficie che appare statica, beffardamente immobile, vanno scoperti, decodificati con lo stesso margine di incertezza a cui la realtà condanna l’uomo.

In una sospensione metafisica la macchina non smette mai di muoversi lenta, continuando a fissare lo stesso angolo di porto per un tempo infinito, arcate nette di luce artificiale sui muri che costeggiano il molo disegnano forti contrasti col buio, dopo gli urli della rissa il silenzio è rotto solo dall’acqua che si rovescia a tratti sopra la banchina, fino al riapparire di Maloin dal fondo e al rumore dei suoi passi. Ha in mano una borsa e il lungo bastone con cui l’ha recuperata in acqua. L’assolutà impermeabilità a qualsiasi  considerazione di carattere etico, la pervicacia nel procedere lungo quella strada facendo asciugare sulla stufa le banconote contenute nella borsa grondante, sono ben presto contraddette dal dissidio interiore che s’indovina negli sguardi e nei gesti, perché Maloin è il diverso in un mondo che non può cambiare ma con cui non si può integrare. La solitudine senza prospettive è la sua condizione di vita, un bicchiere di alcool dalla bottiglia nascosta sotto il tavolo e una svogliata partita a scacchi col proprietario del bar di fronte, alla fine del turno, le uniche vie di fuga, oltre c’è un appartamento anonimo dove una moglie (Tilda Swinton) è consunta dagli anni e dalle nevrosi di una vita stentata, una figlia, Henriette (Erika Bó, l’indimenticabile Estike di Sátántangó, poi figlia del vecchio cocchiere di The Turin Horse) è una commessa/serva agli ordini della dispotica padrona della drogheria, nulla che si opponga al lento degrado delle loro vite in un sonnacchioso paesino della costa francese (location del film è la zona di Bastia in Corsica) movimentato appena dall’andirivieni nello scalo portuale.

Il suo silenzio, interrotto solo da improvvise esplosioni di collera con la moglie e da semplici parole burbere e cariche di amore per la figlia, a cui regalerà una pelliccetta e una sosta al bar dopo il furto, dicono tanto di lui e rendono il finale meno sorprendente di quanto si possa pensare. Maloin vive ai confini del mare, ha accettato la sua infelicità e sembra non accorgersi del mondo intorno a lui, ma scoprirà in sé il desiderio indistruttibile della libertà e della felicità e dovrà reciderlo sul nascere. Il fallimento è la cifra costante di un operare umano segnato in partenza, su qualsiasi versante si esplichi.
Fallisce Brown, il malvivente, l’uomo di Londra che ha derubato il suo datore di lavoro, ma risulta perdente anche chi, come Maloin, fa parte di quella categoria degli onesti che scoprono in sé la facile vittoria del denaro sulla coscienza. La ricchezza insperata lo attrae, ma capire che non c’è felicità possibile gli dà la misura piena della sua disfatta. Come gli altri protagonisti dell’universo di Bela Tarr, anche Maloin è intrappolato in un mondo autoreferenziale da cui è impossibile uscire, sotto il peso di una condanna fatale che costringe a girare a vuoto intorno a sé stessi. L’evento improvviso, il coup de théatre che potrebbe modificare il corso della storia, si presenta sempre sotto forma di miraggio, inganno, se non addirittura trappola diabolica che serve solo a svelare bassi istinti, cupidigia, una bassezza morale congenita che fa precipitare ancora più in basso personaggi che si lasciano vivere con indolenza inerte. (continua nella pagina successiva…)

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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