Di Rachel Currin sappiamo che è un’agente ingaggiata dall’intelligence israeliana, il Mossad, per ostacolare l’arricchimento nucleare iraniano facendo penetrare nel paese materiale difettoso attraverso Farhad Razavi, proprietario di una società di componenti elettronici.
Di Rachel Currin conosciamo l’identità di copertura: passaporto australiano, cresciuta in Canada e vissuta in Germania per lavoro, si è trasferita a Teheran per insegnare l’inglese. Ma chi è davvero Rachel Currin?
Yuval Adler, dopo l’applaudito Bethlehem del 2013, dirige una coproduzione articolata tra Stati Uniti, Germania, Francia e Israele in cui il motivo della spy-story si sviluppa seguendo un flusso dettato da scelte narrative che fanno della questione identitaria un nodo di assoluta pregnanza.
The operative indaga così l’uomo – anzi la donna, con le differenti implicazioni che questo comporta – sotto la copertura; affida alla continuità dei gesti quotidiani il compito di far progredire l’azione, che è dimessa, con poco di spettacolare, di basso profilo come deve essere quello della spia; investe le increspature dei volti del dovere di mantenere viva una tensione che, centellinata, non manca.
Rachel (Diane Krueger) è un corpo apolide, non appartiene a nessun luogo, quasi non ha famiglia (del padre che le rimane sappiamo poco e scopriremo che quel che sapevamo era una bugia), le sue tracce sembrano cancellate già prima ancora che se ne occupi Thomas (Martin Freeman), il tutor assegnatole dai servizi segreti: il suo profilo sembra insomma quello perfetto per un agente incaricato di svolgere una missione così delicata e compromettente.
Forse non lo è. Non lo è se sentirsi vivi significa proprio abbandonare l’identità sbiadita di un’esistenza inceppata che non può procedere se non a partire da radici; non lo è se si scopre di esserci proprio laggiù, di essere presenti a se stessi e agli altri a spasso per quelle strade, insieme a quella gente, nei mercati frequentati da quelle persone, nelle loro scuole, dentro le loro case. In definitiva, di trovare in Iran un senso di appartenenza mai sperimentato, fino a dimenticare, pur soli, che cosa significhi la solitudine.
È un film per certi versi schizofrenico, questo nuovo di Adler, tra momenti contemplativi e scene adrenaliniche, ma coraggioso nel tentativo di sfruttare la quota di conflittualità insita nel contenitore-genere per estendersi orizzontalmente al dramma d’introspezione psicologica, non trascurabile nel suo scavare in verticale nella profonda umanità che nessun addestramento può scongiurare e che drammaticamente entra in gioco ad ogni svolta cruciale, nell’eternità di ogni attimo in cui è richiesto di prendere una decisione che subito è azione – anche quando inerzia, un’azione irreversibile.
Al netto sia di uno stile asciutto che poco aggiunge al discorso portato avanti dai corpi degli interpreti, sia di una duplicità farraginosa e straniante di livelli temporali, l’interesse di The operative è forse esattamente nel suo essere instabile, incespicante come la sua protagonista: non un film di spionaggio ma un terreno in cui sondare se stessi, consapevoli che, se a volte andare avanti costa troppo, non sempre è possibile – al di là di ogni estremo sacrificio – tornare indietro.