[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”#f5af00″ class=”” size=””]Sinossi: Maryam è una giovane ambie ambiziosa dottoressa che lavora in una clinica cittadina in Arabia Saudita. Nonostante le sue qualifiche, deve guadagnare ogni giorno il rispetto da parte dei colleghi maschi e dei suoi pazienti. Dopo esserle stato impedito di viaggiare a Dubai in cerca di un lavoro migliore, un disguido burocratico la porta ad imbattersi nella domanda per le elezioni locali in città; decide così di candidarsi. Con il padre musicista allestisce dei tour partecipando così ai primi concerti pubblici consentiti da decenni nel regno. Si farà aiutare dalle sorelle per la raccolta fondi e per pianificare gli eventi della campagna elettorale. La candidatura di Maryam sfida la comunità conservatrice e fa emergere in modo flagrante le restrizioni imposte alle donne. La guerra tra Maryam e il suo diretto avversario maschio sarà al centro dell’agone, affrontato dalla donna e dalla sua famiglia con grande determinazione[/perfectpullquote]
Alla fine di The Perfect Candidate si può contraddistinguere sul fondo dell’immagine una rete di costrutti di senso inutilizzati, mancati, sfiorati. Il film di Al Mansour sembra infatti la bozza narrativa di un progetto ancora in fase di sviluppo, da centrare sul piano dell’ispirazione visuale e della cementificazione dei contenuti.
Allo stato di presentazione la vicenda di Maryam, giovane dottoressa che a causa di un disguido concorre per un ruolo politico nel suo paese e decide di prendersi carico di alcuni problemi civili ignorati, è un tracciato narrativo di base imperniato su un’idea forte e legittimato da un finale forte: un bozzolo di spunti inerti, non informati nella loro parte centrale dal vigore appassionato del cinema di denuncia bensì annullati della loro urgenza, appiattiti dalla bidimensionalità della pigrizia compositiva.
È grande lo spreco della potenziale forza incendiaria o almeno dell’eventuale carica documentaristica (anche nella cornice di finzione) di una rappresentazione completamente calata negli ambienti intimi della contemporaneità islamica; come è grande lo spreco della capacità intuitiva, riscontrabile in sottotraccia, con cui la saudita Al Mansour sdrammatizza e sottolinea il precipitato reale delle situazioni che rappresenta, controllando l’ambiguità delle contraddizioni e veicolando un messaggio speranzoso e allo stesso tempo già velato di disillusione.
Il patrimonio di sfumature che caratterizzano la storia sociale di Myriam è lasciato intatto dentro ai profili dei personaggi: per quanto esplorati nei movimenti e negli svelamenti quotidiani, per quanto tallonati nei momenti confessionali, quest’ultimi trasportano in grembo verità personali e ambizioni, direzionalità narrative che non vengono accompagnate da un costrutto psicologico o da una riflessione ideologica esaltante.
Le loro azioni sono forti e di rottura, ma il film sembra più interessato alla continua e ripetitiva spiegazione delle azioni stesse e non alla descrizione attenta delle conseguenze: la descrizione letterale dei comportamenti consuma la forza della genuinità dell’immagine d’inchiesta, anche quella composta tra i rischi e le pericolosità.
Il risultato è una rappresentazione che invita gli sguardi promettendo uno scossone per la coscienza e invece tiene a distanza qualsiasi tipo di scarica emozionale e quindi sociale.