Dragomir Sholev si avvale per la seconda volta del progetto TorinoFilmLab a nove anni di distanza da Shelter (Podslon), debutto nel lungometraggio per il regista bulgaro, accolto con un certo favore dalla critica internazionale. The Pig (Praseto) è stato recentemente inserito nel programma ufficiale del Sofia Film Festival, ottenendo il premio Fipresci, quello della giuria ed infine il riconoscimento come miglior film bulgaro.
Accantonato temporaneamente il progetto “Fishbone”, Sholev torna sui luoghi di un’infanzia alla deriva, proseguendo un discorso introdotto con i suoi film brevi e affinato nel primo lungometraggio.
Il paesaggio suburbano di The Pig, desolato e lacerato, proviene direttamente da Shelter ed emerge dallo sfondo con una maggiore violenza. I toni della commedia grottesca lasciano il posto ad una distorsione percettiva che esplora lo spazio comunitario con una prossimità desunta in parte da una prospettiva onirica, ma assolutamente vicina alle modalità con cui inquadriamo quotidianamente il reale attraverso i nostri dispositivi mobili, tanto che la spaccatura tra incubo e realtà, simbolo ed esperienza quotidiana mediata dalle nuove tecnologie, ci sembra sia la forza sottile di un film altrimenti molto “forte” nel marcare stilisticamente l’immagine. Un sorprendente Rumen Georgiev interpreta un ragazzino di 13 anni bullizzato dai compagni di scuola. Obeso e solitario, parla stentatamente e si aggira come un clandestino per i lunghi corridoi deserti dell’istituto, senza mai separarsi dal suo smartphone attraverso il quale comunica esclusivamente con la nonna, l’unica che l’aspetta a casa e che si prende cura di lui. La famiglia di Shelter, impotente e incapace di comunicare con i propri figli è qui totalmente assente, come quasi tutto il mondo degli adulti, spinto ai margini del racconto, quasi fosse il testimone silente di un degrado morale di cui si vuole sbarazzare, dopo averlo creato.
Sholev filma i maltrattamenti e le ripetute violenze con un esercizio di cinema fisico e sensoriale, molto vicino all’esperienza soggettiva. Il mondo esperito è in fondo una diretta emanazione di Rumen, seguito ossessivamente in ogni suo spostamento, attento a non farsi stanare, animale in gabbia circondato da uno spazio claustrofobico e ostile.
Dalle finestre della scuola osserva quotidiane scene di violenza, soprusi perpetrati da un gruppo di adolescenti nei confronti dei più deboli, in un paesaggio che non sembra generato da alcun osservatore. Tutt’intorno la foresta, luogo in cui rifugiarsi dopo un tentativo di reagire. Braccato come una bestia, attraversa tutti gli stadi di un rito di passaggio, entrando e uscendo dalla civiltà conosciuta con piccoli espedienti di sopravvivenza, fino a sbarazzarsi del cellulare, strumento di connessione con il nido famigliare, utilizzato da Rumen come uno scudo per proteggersi dal mondo.
Tutta la seconda parte del film è dedicata a questa esperienza di formazione, ed è proprio tra gli interstizi della dimensione simbolica che emerge il confronto difficile con il mondo degli adulti. Rumen incontrerà l’imprenditore di una piccola azienda che produce pollame, un gruppo di poliziotti, una clochard. Ad eccezione di quest’ultima che si limita a chiedergli soldi, lo sguardo punitivo e senza appello della società bulgara, si scaglia contro questo ragazzo diverso con la ferocia o la compassione con cui si presume di dover trattare gli animali, i migranti, gli esclusi.
La violenza che dalla scuola penetra la foresta, con il linciaggio programmato dal gruppo di studenti ai danni di Rumen, è filmata come una concitata azione di guerra, con i ragazzi mascherati mentre brandiscono bastoni, quasi a mimare i volontari dell’Unione militare dei Veterani Bulgari “Vasil Levski”, guidati ai margini della legalità da Vladimir Ruscev, per impedire gli ingressi illegali al confine con la Turchia, lungo tutta l’area forestale Bulgara.
Sholev sembra individuare in questo modo gli estremi di una società che si riconosce nella riproduzione di una serie di azioni offensive. Il ventre della foresta, da dove Rumen cerca di affrontare il mondo degli adulti e quello a lui più vicino, gli rivela l’essenza della prevaricazione come il prodotto di una comunicazione tra le due realtà, così distanti da quella animale e dalla fauna con cui riesce a stabilire un contatto.
Un cane randagio, le formiche che invadono le sue mani, elementi di uno stato di natura che gli consentono di dare un senso alla paura, invece di elevarla a totem da cui trarne un vantaggio. Quando tutto sembra ormai cancellato dalla furia distruttiva della violenza, Rumen pronuncia per la prima volta il suo nome, svelandoci la sua età. Un’assunzione identitaria che separa con un’interruzione ex abrupto quello che abbiamo vissuto da quello che potremmo vivere.
Dragomir Sholev è un’autore da tenere assolutamente d’occhio, riesce a far convivere numerosi registri nella dimensione unificante del piano sequenza, tanto che ci è venuto in mente il cinema “sconosciuto” di Alan Clarke, quello che rileva l’astrazione dal reale e che nelle interminabili camminate dei suoi protagonisti, ci consente di convivere con loro, nella progressiva relazione in fieri con l’ambiente e la suburbia. Se la costante distorsione a cui sottopone il punto di vista ricorda le declinazioni tra grottesco e sogno di certo cinema dell’Est Europa, The Pig trattiene tutta la ferocia di un’esperienza immersiva che pur alludendo ai nuovi sistemi di condivisione e riproduzione di massa, li tiene a distanza e li nega, raccontandoci cosa sono diventate le società urbanizzate schiacciate tra guerre recenti, capitalismo globalizzato e cieco nazionalismo.