C’è una sovrapposizione stimolante nel freddissimo film di Stephen Frears e risiede nell’incredibile dedizione di Ben Foster alla ricerca di un punto di contatto tra la malattia e la trasformazione della stessa verso qualità sovrumane. Lance Armstrong sconfigge il tumore e si sottopone ad una mutazione cellulare che ne rappresenta il rovesciamento. Da un’umanissima fragilità a quella brama di vivere che assimila l’atleta ad una macchina in grado di superare qualsiasi ostacolo.
E mentre la meticolosità scientifica di Armstrong allontana qualsiasi cedimento emozionale nella continua assunzione dei cocktail chimici alla base del doping, c’è una parte di lui che mantiene quel contatto affettivo con i malati di cancro, quasi fosse un’espiazione rispetto alla sua inesorabile discesa verso l’automazione.
Grazie anche al lavoro di cesello fatto dalla scrittura di John Hodge, Frears si dimostra maggiormente interessato alle contraddizioni di questa incredibile figura rispetto al valore civile dell’inchiesta giornalistica condotta da David Walsh, interpretato nel film da Chris O’Dowd.
Persino l’emergere dei frammenti documentali, con alcuni footage prelevati dalle immagini di repertorio del giro di Francia, più che a “dimostrare”, servono al regista inglese per costruire un dispositivo ritmico adatto a suggerire l’inesorabile corsa verso un’ossessione distruttiva.
Non è quindi l’indagine ad interessare Frears, ma lo sport osservato da una prospettiva antropologica, quella di una prassi tecnica e quotidiana che delinea la vita di un sistema, incluse le strategie di “disintossicazione” istantanea per cancellare ogni traccia di doping presente nel sangue.
Un rovesciamento di quel ciclismo eroico descritto da Luciano Bianciardi che spinge i gregari ai margini di una politica quasi “aziendale” legata al mantenimento di una microsocietà non così distante dal macrouniverso corrotto e connivente dei governi cittadini. Tutto il “sistema” doping è sopratutto una questione economica che connette le promesse degli sponsor ad un organizzazione industriale del risultato. Frears non sottolinea l’accumulo di ricchezze di Armstrong, ma lo inocula concettualmente attraverso le figure che gli stanno intorno, il loro legame coatto con la squadra e la progressiva assimilazione dell’atleta alla fisiologia di un gangster che invece di sporcarsi le mani di sangue, cerca con qualsiasi mezzo di mistificare le informazioni sfruttando la macchina celibe dei media.
Il cineasta inglese corre il rischio di realizzare un film algido nel seguire la trasformazione di Armstrong in un mostro anaffettivo, complice il continuo entrare ed uscire dal dispositivo narrativo dei generi, certamente suggeriti e intelligentemente disattesi a partire dal film inchiesta, ma con una funzionalità forse più piatta e convenzionale rispetto al traumatico balletto meccanico di Ron Howard, dove la mutazione era davvero una lotta furibonda tra organico e inorganico, con il corpo improvvisamente fuso alla fisiologia del circuito.
Frears è più semplicemente e per certi versi onestamente aderente al centro occupato da Ben Foster, figura dolente e impenetrabile, immagine tragica di un’ossessione.