martedì, Novembre 5, 2024

The Salvation di Kristian Levring: la recensione

Di fronte alle rare produzioni che si avventurano nella ricostruzione di un genere ormai lontano per prassi e frequenza produttiva, sorprende il tentativo critico o peggio ancora promozionale impegnato a farci credere che si tratti dell’ennesima rilettura anti-convenzionale di un’epopea stereotipata; quale stereotipo, ci verrebbe da dire e sopratutto, quale Western. Il punto non è certo l’ingenua supponenza con cui si cerca di riferirsi anche solo idealmente ai modelli revisionisti di Leone, Peckinpah, Hellman o anche al retro-classicismo crepuscolare di Robert Redford, tutti collocati tra il 65 e il 79, ma la totale ignoranza rispetto ad un genere la cui morte è forse avvenuta attraverso un processo di disseminazione e di riallocazione, basta guardare attentamente l’ultimo splendido George Miller per capire di cosa stiamo parlando.
Tutti quei film che fuori tempo massimo sembrano sterilmente interrogarsi sull’origine di un genere che non è più quello che conoscevamo, si limitano appunto a svolgere la propria tesina compilativa senza davvero occupare in modo più umile, quell’idea di cinema. Non che sia impossibile fare entrambe le cose, The Unforgiven e Mad Max Fury Road con intenzioni e risultati diversi sono due esempi eccellenti, al contrario del film di Kristian Levring  che con il suo “The Salvation” esce dalle regole ferree del Dogma 95 per tornare dietro la macchina da presa dopo sei anni di assenza e scrivere insieme ad Anders Thomas Jensen, fedele collaboratore di Susanne Bier, la sceneggiatura di questa tiepidissima incursione europea nell’epica del nuovo mondo.

Abbiamo scomodato la Bier, e in effetti i risultati non sono così diversi da quelli del pessimo Serena, serbatoio di banali citazionismi incapace di raccontarci il presente e allo stesso tempo intento a mescolare generi e simbolismi espliciti, con quella distanza falsamente critica che è semplicemente presunzione autoriale, tant’è un aspetto che accomuna i due film è proprio la relazione tra ambiente naturale e set, la montagna nel film della Bier e il deserto in quello di Levring, ambienti circoscritti e soffocati da una concezione chiusa dello spazio, dove tutto è collocato al posto giusto per essere caricato esplicitamente di senso.

Jon è un danese espatriato in America per cercar fortuna. Dopo sette anni la moglie e il figlio lo raggiungono e si avventurano in un viaggio verso la fattoria che l’uomo mantiene insieme al fratello. La carovana che li trasporta ospita anche due sbandati che dopo aver molestato la moglie di Jon e minacciato il bambino, spingono l’immigrato fuori dall’abitacolo per completare lo scempio indisturbati. La vendetta di Jon sarà inesorabile e scatenerà una reazione a catena; uno dei due balordi era il fratello di Delarue (Jeffrey Dean Morgan), proprietario terriero locale che tiene sotto scacco un intero villaggio inclusi primo cittadino (Jonathan Pryce) e sceriffo (Douglas Henshall).

Entro questi margini narrativi Levring costruisce un racconto di vendetta visto mille volte, accentuando le caratterizzazioni e immergendo i corpi in uno scenario iperrealista, con il contributo di Jens Schlosser, la cui fotografia assume i toni gotici di certo western all’italiana cercando di infondere una qualità pittorica che al contrario, sorte gli effetti indesiderati di una brutta graphic novel senza ovviamente assumerne il taglio e il ritmo. Levring inquadra con insistenza il ribollire delle polle di melma e petrolio, per suggerirci quanto sia marcio il nuovo mondo e come l’oro nero stia contaminando tutto, dai pozzi d’acqua all’anima degli individui. Al netto di queste raffinatezze simboliste che come al solito pesano come una zavorra su tutto il film, il tentativo di descrivere alcune figure dolenti, tra cui emerge il personaggio interpretato da Eva Green, muta, sfigurata e con l’energia di un animale in gabbia, segue lo stesso procedimento decorativo. Sono personaggi scritti con l’illusione di arricchire il behaviorismo di quelli classici, tutt’uno con il gesto e il movimento del cinema, una libertà di cui Levring ha molta paura tanto da trasformarli nella parodia involontaria di archetipi immaginati più che realmente acquisiti,  traduzione visuale di un campionario di stereotipi mai visti, sopratutto nel cinema classico americano.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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