Shamil Salmanovich Basayev è completamente fuori dal controllo del presidente Aslan Maskhadov alla vigilia dell’azione militare contro la repubblica del Daghestan; una mossa improvvisa, assolutamente nociva per il movimento indipendentista ceceno e probabilmente più in sintonia con i disegni di Mosca. È l’agosto del 1999 e l’attacco sarà la scusa offerta su un piatto d’argento alle forze federali russe, che invaderanno la Cecenia uccidendo in quattro anni 100.000 civili, facendo sparire migliaia di persone nelle fosse comuni e riaprendo campi di concentramento di staliniana memoria.
Sui cadaveri della Cecenia, Vladimir Putin costruisce la sua “irresistibile ascesa”, Jacques Allaman a questo proposito ha scritto un libro indispensabile, che consente di riflettere anche sul ruolo del terrorismo in quel contesto, basta pensare alle finanze destinate alla ricostruzione della Cecenia dopo il primo conflitto, deviate nelle casse delle formazioni più estremiste con il conseguente indebolimento del governo di Maskhadov, destabilizzazione sulla quale puntava la Russia di Eltsin-Putin.
Gioverà ricordare tutto questo all’indomani degli accordi “contro il terrorismo internazionale”, ennesimo gesto di legittimazione della politica criminale del premier Russo.
Gioverà ricordarlo, anche di fronte al nuovo, imbarazzante lavoro di Michel Hazanavicius, ambientato proprio nel 1999 durante la Guerra nel Caucaso Settentrionale, sfondo di una storia scritta dal regista francese e ispirata ad un film con lo stesso titolo, diretto da Fred Zinnemann nel 1948.
Da “Odissea Tragica” (The Search), Hazanavicius prende quasi tutto, a dimostrazione del fatto che il suo cinema ha un costante bisogno di relazionarsi mimeticamente con la struttura dell’impianto classico come garanzia scolastica; rêverie di maniera che in “The artist” conteneva tutti i difetti di un’arte museale costruita come il percorso all’interno di una galleria delle cere, allestita per favorire gli aspetti più deleteri dello “stupore” per il cinematografo.
A dispetto delle dichiarazioni dello stesso Hazanavicius, The Search non è affatto in controtendenza con il film precedente; costruito quasi come una fiaba e strutturalmente ancorato al nesso di causalità più evidente, segue uno schematismo simmetrico che non è semplicemente rappresentato dal contenitore esterno, un’ellissi inclusiva di tutto il senso del film, così esplicita da avvicinarsi alla freddezza strutturale del Babel di Iñárritu, ma ripete questo stesso principio in una serie di sequenze chiave che si avvicendano lungo il corso del film.
Il pezzo di hashish, lo zaino di Hadji (Abdul Khalim Mamutsiev), la collana rubata e donata a Carole (Bérénice Bejo), la partenza del treno; tutti elementi che si legano ad un’interpretazione del caso osservato attraverso il dispositivo realista, alibi vero e proprio per convincerci di essere, al contrario, entro il territorio della causalità; in una frase, il massimo della falsificazione, esattamente come per “The Artist”.
In questo trucco manifesto di cause ed effetti, non abbastanza soddisfatto di giocarsi tutto sul montaggio parallelo di due film, quello dell’educazione alla violenza del soldato russo e l’odissea del bambino ceceno, Hazanavicius taglia fuori le ferite profonde di un genocidio, puntando da una parte sugli stereotipi della macchina guerra, dall’altra sul rapporto tra Hadji e Carole, sullo sfondo di una Groznyj improbabile.
Una tendenza al quadretto, perfettamente in sintonia con il manierismo di “The Artist”, basta pensare al discorso di Carole all’Onu come rappresentante della commissione per i diritti umani, dove Hazanavicius insiste sulla disattenzione dei membri in aula mentre la donna enumera gli orrori dell’esercito russo ai danni del popolo ceceno, immagine tiepidissima e didascalica di una realtà ben più cruda, la cui analisi senza riserve, proprio in quegli anni aveva causato la morte di Antonio Russo.
The Search, nonostante le intenzioni dichiarate di stare alla larga da qualsiasi abbellimento oleografico, nonostante la vicinanza con Raphaël Glucksmann, il figlio di André, il filosofo e storico francese da sempre attento osservatore della questione cecena, conferma quello che pensavamo di Michel Hazanavicius e del suo cinema illusionistico.