Cormac McCarthy, autore di quello che lui stesso definisce “romanzo in forma drammatica”, andato in scena a Chicago nel maggio 2006 e adattato per la HBO, emittente televisiva che l’ha trasmesso in America nello scorso febbraio, firma anche la sceneggiatura per la regia di Tommy Lee Jones, interprete con Samuel L. Jackson di uno scontro dialogico serrato, estremo, a tratti enfatico e autocompiaciuto, duello verbale aspro e irrisolto fra un bianco e un nero, anonimi, nel chiuso della squallida stanza salotto/cucina con vista su Harlem, anonima abitazione del nero. Dalla strada entrano rumori cittadini, dagli appartamenti vicini arrivano brani di ordinaria follia del genere – Dimmi cosa facevi nel letto di mia madre?- niente però riesce ad interrompere la marea montante delle parole fra i due, in un testa a testa che finirà alla pari, entrambi sconfitti e saldamente aggrappati alle loro convinzioni. Il bianco ha tentato il suicidio buttandosi dalla piattaforma della metro sotto le rotaie del Sunset Limited lanciato a 130 all’ora, il nero lo ha salvato per puro caso. Il bianco è un professore universitario al capolinea, un nichilismo totale lo ingabbia rendendolo impermeabile ai tentativi del nero, ex galeotto omicida che ha incontrato Gesù in carcere, un redento che ora sa per certo che “ c’è Gesù in questa stanza”, parla con la mano sulla Bibbia posata fra loro sul tavolo, il libro dei libri, quello che il professore non ha letto fra i quattromila e oltre di tutta la sua vita. Il nero è depositario di quella cosa eterna “… che fa stare la gente con i piedi fermi per terra quando passa il Sunset Limited ”, dunque se il bianco ha deciso di morire lui deve salvarlo in nome di un Dio che non vuole il suicidio, e nulla di quello che il professore dirà getterà l’ombra del dubbio sul suo radicalismo missionario. Lee Jones dà al bianco, intellettuale definitivamente déraciné, la faccia spenta di chi non trova più neanche la voglia di dibattere, il suo credo è sintetizzato in poche battute di media lunghezza poste fra risposte monosillabiche “… io anelo all’oscurità, io prego che arrivi la morte, la morte vera. Se pensassi che da morto incontrerei le persone che ho conosciuto in vita, non so cosa farei, sarebbe la cosa più orrenda, il colmo della disperazione, se dovessi rincontrare mia madre e ricominciare tutto daccapo, ma stavolta senza la prospettiva della morte a consolarmi… be’, quello sarebbe l’incubo finale.” Jakson esprime una fisicità forte, carnale, nel suo imporsi al bianco estenuato, costringendolo a restare e parlare, bloccando i suoi tentativi di andar via con domande che lo inchiodano per un attimo, quanto basta al professore per tornare al tavolo o buttarsi affranto sul divano. Ha la sorridente certezza del “folle”, spesso i suoi bianchi denti brillano in una risata spiazzante, è l’uomo che parla solo per dire cose “serie come un attacco di cuore”, e quel suo intercalare rivolto al professore, “Honey” , costringe l’altro, ad un certo punto, a chiedergli perché lo chiami “tesoro”. Il nero dà del tu, il bianco del lei, dopo un po’ ci si accorge quanto sia prevaricatorio il suo pontificare con l’aria di avere la verità a portata di mano, mentre il mancato suicida ha la fragilità del condannato a vivere che a tratti riesce anche ad abbozzare un sorriso su cui l’altro si getta rapace. Arriva però il momento risolutivo per entrambi, e sono le parole, su quelle il nero ha avuto già qualche tentennamento, c’erano parole del professore che lui non conosceva e dunque l’epilogo è a favore del bianco e della sua perorazione in nome della morte. L’uomo di cultura conosce l’inganno e sa che l’unica speranza è smettere di sperare: “Sopra ogni gioia pende l’ombra dell’ascia, so cosa mi aspetta e so chi mi aspetta, non vedo l’ora di strofinare il naso contro la sua guancia ossuta, tutta questa storia di dio è una gran cazzata, il mondo è solo un lebbrosario morale, adesso mi resta solo la speranza del nulla e a quella mi aggrappo”. Il nero gira la chiave nella toppa, il bianco scompare, probabilmente tornerà alla stazione della metro ad aspettare il Sunset Limited. Il nero, seduto sul divano con gli occhi sbarrati e la testa fra le mani, è ripreso da un dolly sovrastante. Una regia di scarsa inventiva, che eccede un po’ troppo in staticità e in pérformance di gusto teatrale, è ampiamente compensata dalle ottime prove attoriali che fanno di The Sunset Limited un film decisamente fuori dagli schemi, la firma di Mc Carthy è un marchio di garanzia e di dialoghi filosofici new wave , di tanto in tanto, si sente ancora il bisogno.