Considerato entro la cornice della quattordicesima Festa del cinema di Roma, The vast of night, esordio alla regia di Andrew Patterson prodotto da Amazon Studios, non può esimere chi guarda dall’istituire un parallelo con lo Scary Stories to Tell in the Dark scritto da Del Toro – e realizzato con ben altro budget – coerentemente rispetto al proprio immaginario poetico ma comunque guardando, per ciò che concerne almeno la stesura del contesto di riferimento, a una certa tradizione cinematografica e televisiva che è la stessa cui si rivolge Patterson non solo per omaggiarla, anche per riscriverla.
Protagonisti molto giovani abitano lo stesso sterminato universo fatto di piccole e ordinarie cittadine a cavallo tra gli anni ’50 e ’60; barcamenati tra feste scolastiche, drive-in e passeggiate in notturna tra i boschi, si trovano a dover fare i conti con l’esperienza dell’Altro che implica anche una determinante presa di coscienza della Storia.
L’orizzonte cui si rimanda è, in entrambi i casi, quello tutto, ma non solo, spielberghiano che tematizza l’avventura della scoperta e di più in Patterson, l’idea di una paura proliferante nella presenza/assenza di qualcosa che, diverso, non si vede. Magari solo si sente.
The vast of night risale alle origini di questa vocazione orrorifico-fantascientifica configurandosi nella diegesi come puntata di uno show televisivo: la tagline della serie, Paradox Theater, invita a sintonizzarsi “su una frequenza tra logica e leggenda” e il gioco di sovrapposizioni con l’antologica The twilight zone – creata sul finire degli anni Cinquanta da Rod Serling e visitata a più riprese dallo stesso Spielberg – si fa esplicito. “Tra la luce e l’oscurità, tra la scienza e la superstizione, tra l’oscuro baratro dell’ignoto e le vette luminose del sapere” è esattamente dove si colloca la storia di Fay, centralinista nel tempo libero dalla scuola che durante la notte intercetta un insolito segnale sonoro, e di Everett, amico e conduttore di una locale trasmissione radiofonica, spalla della ragazzina nell’indagine sulla natura di questo segno.
Date le premesse in voga – basti pensare che di The twilight zone è in uscita il terzo revival – Patterson realizza un progetto audace, temerario soprattutto nell’affidarsi a scelte narrative e linguistiche che riformulano il genere attraverso l’affermazione di un sostanziale, spassionato primato della voce sull’immagine, scongiurando così il rischio di confinare il film alla sola cerchia di nostalgici appassionati.
A introdurci nella finzione dichiarata, dopo la zoomata sullo schermo del televisore analogico, c’è il primo di una serie di long take che, ponderati da un montaggio calibrato, si articolano in ripetute oggettive irreali più simili a soggettive “aliene” e che, insieme a stacchi puntuali irrispettosi della continuità classica, restituiscono il punto di vista di quel “qualcosa nel cielo” protagonista della dimensione auditiva del racconto, cui pure è destinata la presentazione di Fay ed Everett, oltre che la progressione della vicenda.
Per una buona quantità di minuti iniziali infatti i due agiscono nello spazio cittadino senza che i loro volti vengano discretamente mostrati, tuttavia è chiaro il loro ininterrotto dialogo ripreso per lo più in campo lungo: i discorsi curiosi sulle invenzioni che nel futuro modificheranno la quotidianità degli uomini riguardano anche la sfera mediale. Proprio questa assurge, di lì a poco, a ruolo chiave: il medium specifico della radio veicola l’azione che, quasi del tutto assente nella sua forma canonica, passa appunto per il tramite della conversazione fisicamente statica.
Quasi un kammerspiel in definitiva, articolato su tre momenti e ambienti successivi che in più occasioni risultano sospesi nel loro aspetto visibile – lo schermo volge al nero – e potenziati in quello udibile.
Ciò che non si vede spaventa di più, ciò che si sente trascina tanto quanto l’immagine.
Non resta che ristabilire la complessità del prodotto audiovisivo, restare in silenzio coperti da una volta di “stelle”.