Mai come in The Walk il cinema di Zemeckis era riuscito a rendere permeabile il confine tra i due lati dello schermo. Ci viene in mente, in un contesto diverso, la sala cinematografica tranciata in due nel bellissimo Matinée di Joe Dante dove la vertigine si verificava all’interno dello spazio di fruizione, zona cinefila ancora confortevole proprio in relazione al mondo illusionistico a cui si riferiva, quello del cinema circense di Jack Arnold già orientato a spezzare la linea di demarcazione tra schermo e vita con i suoi effetti artigianali che invadevano la sala.
Zemeckis ha sempre puntato più in alto, anche quando rimaneva entro i parametri della fantascienza o della rom-com, avvitando il romanzo di formazione su se stesso (Back to the future), rappresentando il viaggio interstellare come un falso movimento (Contact), compenetrando l’immaginario Warner con quello dell’intera tradizione hollywoodiana in un vero e proprio viaggio tra mondi (Chi ha incastrato Roger Rabbit?), raccontando le relazioni in un continuo rovesciamento della verità nella menzogna molto prima di David Fincher e sovrapponendo l’amore con la trasparenza della morte, incubo insostenibile come innamorarsi di un fantasma, giusto per rubare un’immagine descrittiva di Adolfo Bioy Casares (il bellissimo What Lies Beneath). Oppure quella stessa morte che tornava ad essere un cartoon nel film più spietato del regista americano dove i corpi esistevano per essere sfondati, deformati, attraversati (Death Becomes Her).
Con la costante attenzione alle nuove tecnologie e al rapporto mai riconciliato tra CGI e set, corpo e immagine virtuale le cui cicatrici diventano visibilissime nel geniale Forrest Gump, Zemeckis arriva a sperimentare il formato IMAX puntando tutto sulle dimensioni e la prospettiva, recuperando quel rapporto con l’abisso che è connaturato all’esperienza tra attuale e virtuale per come la descrive Deleuze in “Differenza e ripetizione“, vera e propria forza creativa dell’individuo che riesce a superare persino la definizione di realtà, attraverso un processo di attualizzazione della possibilità.
Philippe Petit sul filo, più che guardare oltre e trascendere la realtà spalanca la propria soggettività al piacere dell’immanenza, una scoperta di se stessi e della realtà interiore, già parte della propria essenza, adesso visibile attraverso il delinearsi di quel tracciato impossibile che separa le Twin Towers e che include anche il vuoto solo a patto di rilevarne tutte le differenze come parte di un processo in divenire, non dissimile dall’esercizio che Joseph Gordon-Levitt ha dovuto fisicamente affrontare tra ricostruzione, green screen e modellazione 3D.
Tutto il film è attraversato continuamente da questa differenziazione, fino ad espandere il teatrino della piazza o quello del circo nell’illusione spiraliforme del tempo, quella che dai pochi scatti che ritraggono Petit sospeso nel vuoto consentono a Zemeckis di re-immaginarsi tutti gli istanti, riportandolo in vita con la registrazione del tempo che passa, mettendo letteralmente “in abisso” passato e presente, riavvolgendoli continuamente, ritardando disperatamente l’approdo. Più che dal vuoto la vertigine scaturisce dal rifiuto di farsi “inquadrare” da parte di Petit/Gordon-Levitt, mentre perpetra l’istante. Nella futilità di un’ossessione così totalizzante c’è tutto il senso del nostro stesso piacere ambivalente per l’abisso, attrazione e repulsione per l’immagine sullo schermo, vicinanza e incolmabile distanza: l’atto di conservare il tempo come gesto disperatamente impossibile ma anche struggente. Cinema senza fine né inizio.