Il quattordicenne J (interpretato da Rhys Fehrenbacher) abita nella Chicago contemporanea e sta vivendo un momento di crisi identitaria, legato alla personale definizione di genere. Attraversato da numerosi dubbi e con il sostegno dei genitori decide di sottoporsi ad una terapia per ritardare momentaneamente la pubertà, in questo modo potrà prendersi il tempo necessario per riflettere su un eventuale cambio di sesso. Una scelta che necessita di un tempo maggiore rispetto a quello prestabilito dai medici. Giunto al termine del suo percorso in terapia, J non sarà ancora in grado di scegliere quale strada percorrere. Ogni giorno che passa J si avvicina e si allontana da una definizione netta della sua identità sessuale. La percezione dell’identità maschile e di quella femminile si alterna senza soluzione di continuità, incluso l’annullamento di ogni confine di genere, in una dimensione intimamente apolide che spiega in qualche modo il significato del titolo.
“They” è la seconda produzione esecutiva di Jane Campion, se si esclude l’assist solamente “morale” per “Sleeping Beauty” di Julia Leigh. Un secondo imprimatur quindi, che arriva a ben 19 anni di distanza da un’altro esordio, rimasto tale, quello di Christina Andreef con “Soft Fruit”. I toni e i modi del film della Andreef erano fortemente derivativi, probabilmente a causa della prossimità con il cinema della Campion e con quello di Alison Mclean, per le quali aveva lavorato come assistente su set importanti e formativi come quelli di “Sweetie”, “Un Angelo alla Mia tavola”, “Lezioni di Piano” e “Crush”. Nel film dell’autrice iraniana Anahita Ghazvinizadeh c’è una maggiore freschezza e soprattutto una libertà più netta dall’influenza ingombrante della Campion, limitata al naturalismo low-budget dei primi corti e al confine labile tra cinema della realtà e trasfigurazione onirica. Ci riferiamo in particolare alle brevi storie di formazione di Passionless Moments, An Exercise in Discipline: Peel e A Girl’s Own Story.
Quel simbolismo che associa il processo identitario di J ad un fiore, con il mondo-serra che lo protegge, viene rappresentato come il luogo di convergenza tra sicurezza e fragilità dove il tempo a un certo punto si ferma. Aspetto che ha molto in comune con il primo cinema della regista Neozelandese, vicina alla formazione della coscienza durante il suo sviluppo e alle modalità con cui questa si concretizza nella relazione stretta tra empirismo e dimensione interiore.
Su questo terreno l’autrice di origini iraniane fa fiorire altre forme del contrasto identitario, non ultimo quello relativo alla condizione degli immigrati lontani dalle proprie radici, soprattutto quando introduce i personaggi di Lauren (Nicole Coffineau), e del fidanzatato iraniano Araz (Koohyar Hosseini), i cui problemi occupano la seconda parte del film.
Da questo punto di vista le stesse aspirazioni della Ghazvinizadeh, ex studentessa immigrata dell’istituto d’arte di Chicago, attraversano il film componendo un quadro complessivo sull’incertezza e la difficoltà di compiere le proprie scelte in un territorio rispetto al quale sfugge proprio il senso di appartenenza. Ecco perché J in qualche modo incarna il significato più profondo di questo continuo slittamento di senso, questo disancorarsi dai limiti e dai confini identitari, questa pecezione liquida della propria identità come chiave di lettura per tutte le piccole e grandi incertezze che ci dilaniano.
Carolina Costa cura una fotografia quasi sempre fuori fuoco e fuori assetto, basata sul rapporto asimmetrico tra volti e oggetti, memore, forse anche in forma reverenziale, del lavoro svolto da Dion Beebe per “In the Cut” della Campion. In quel caso, il sentirsi continuamente visti, spiati, pedinati, serviva alla regista neozelandese per creare quel senso di terribile instabilità che accompagna la pecezione del desiderio. In “They” la Ghazvinizadeh si serve del talento visivo della Costa per creare un disequilibrio simile in relazione allo sguardo, ma con intenti più vicini alla restituzione di un processo intimo. Questo è teneramente osservato durante le fasi della sua formazione, quando ancora la morale o i “valori” di un occhio esterno e giudicante, famigliare o di Stato che sia, non sono intervenuti per stabilire confini, barriere e limiti.