Timbuktù di Abderrahmane Sissako dell’Africa canta la disperazione e la felicità, la bellezza originaria e la violenza predatrice che da secoli la distrugge. Oggi è la Jihād islamica, ieri i mercanti di schiavi e la rapace follia dei colonizzatori europei.
Eppure è la bellezza quella che vince, è la gazzella che corre nel deserto inseguita da uomini armati che gridano “Sfiancala!”; sono le donne dallo sguardo fiero che gli uomini lapidano esultanti; i ragazzi snelli e veloci che mimano una partita di football, il pallone non c’è, la Jihād ha proibito il calcio; i giovani riuniti a far musica e i kalashnikov che sfondano porte e disperdono al vento le note colorate di Timbuktù Fasso di Fatoumata Diawara e Amine Bouhafa, la musica non piace alla Jihād ; sono i bambini che fuggono ansimanti fra le dune.
Ma oltre le dune non c’è il mare, e se anche ci fosse? Gli occhi della bambina oltre la quarta parete chiedono perchè.
Questo e tanto altro è Timbuktù, sguardo su un mondo troppo poco conosciuto e amato, un’Africa fatta di suoni, atmosfere, colori, case di sabbia, orizzonti lunghissimi, silenzi ovattati e spari improvvisi, esplosioni devastanti.
Alla periferia di Timbuktù c’è il deserto, ma si può anche vivere sulle sponde del Niger.
Lì si è trasferito in tenda Kidane (Ibrahim Ahmed), pastore touareg con la compagna Satima ( Toulou Kiki) e la figlia Toya (Layla Walet Mohamed). Con loro c’è Issan (Mehdi A.G. Mohamed) un pastorello che gli pascola le otto mucche che ha.
Capiamo ben presto che Kidane si è rifugiato lì per scampare al clima della città, dove l’arrivo dell’islamismo radicale ha imposto la sharia con leggi assurde che ne hanno distrutto l’equilibrio, negando anche le libertà più elementari.
Nel deserto c’è pace e silenzio intorno alle magre risorse che la natura offre, Kidane è un uomo di pace e la sua fedele compagna lo ama e lo segue devota. Fino al brusco cambiamento di rotta.
Kidane uccide accidentalmente Amadou, il pescatore che ha massacrato Gps, il bue della mandria. Scontro tra confinanti in tempo di sharia, Zidane è innocente e orgoglioso, il processo/farsa del tribunale islamico sarà solo un pretesto per un nuovo capitolo della violenza ai danni di popolazioni inermi.
Sissako si è ispirato ad una storia vera (una delle tante) di quei tristi tropici, storia di insabbiamento e lapidazione visibili in un brevissimo flash di insopportabile durezza, e ne ha fatto un racconto libero e inventivo, in cui funzione narrativa e aspetti antropologici della rappresentazione convivono con un’attualità mai come oggi urgente.
Film corale, pellicola lacerata tra la greve brutalità di bande armate che stuprano territorio e uomini e la commovente leggerezza di donne, uomini, bambini che la violenza sfianca e afferra come la gazzella del deserto, spoglia il suo linguaggio di ogni spettacolarità in nome di un’esigenza di verità che tocchi il cuore delle cose, che affidi alla verità del cinema quello che cronaca e Storia sono incapaci di dire.
Sissako fa parlare il tono medio della vita, e il dramma ne esce multiforme, variegato, riflesso di una realtà che nella tragedia può anche assumere il tono scherzoso della parodia, quando fa fumare di nascosto lo jiahidista “duro e puro” (Abel Jafri), o ne fa il protagonista del siparietto “lo jiahidista innamorato”, o ancora mette quegli uomini armati fino ai denti, di cui si vedono a malapena solo gli occhi, a filmare video di propaganda molto casereccia da postare su you tube.
Smartphone di ultima generazione, jeep multiaccessoriate, armi sofisticate per sparare a poveri cristi inermi, tutti i ritrovati della scienza e della tecnica al loro servizio parlano di una colossale mistificazione ad opera di poteri forti contro l’Islamismo vero, che nulla è di tutto questo.
Inevitabilmente tornano di attualità parole dagli Appunti per un’Orestiade africana di Pasolini:“La cultura di massa, la totale industrializzazione, con la conseguente evoluzione antropologica, mi spaventano: io la chiamo, questa nuova fase della storia umana, la nuova preistoria”.
L’assoluta stolidità irrazionale, l’ignoranza profonda delle loro stesse leggi sacre (l’imam, Adel Mahmoud Cherif, fa sforzi sovrumani e inutili per far capire a qualcuno di loro il senso vero dei versetti coranici) è spesso oggetto di divertita ironia che purtroppo, altrettanto spesso, è costretta a virare bruscamente.
Belve umane a cui nulla muove dentro negare la vita a esseri come loro, e anche nei modi più brutali e inimmaginabili, costringono la scena a cambiare colore, e il caldo ocra della sabbia, l’azzurro del cielo, la pelle levigata di quelle donne bellissime, il viso rugoso di quei vecchi che sembrano raccogliere tutta la saggezza del mondo, diventano il cupo fondo dell’Inferno.
E restano solo i bambini a fuggire, senza meta né speranza.
Inevitabile, di fronte ad una sapienza registica a cui la passione aggiunge valore profondo, pensare ad una cinematografia africana di grande forza che troppo tardi arriva sul red carpet internazionale. Ci si augura che non sia solo il portato di un’attualità che oggi preme selvaggia, si farebbe torto a chi, in tempi non sospetti, aveva preconizzato tutto con ampia preveggenza.
Si pensa a Picasso, ad esempio, di fronte alla scena delle maschere lignee usate dagli jiahidisti come bersagli per esercitazioni di tiro.
Quelle stesse maschere un giorno fecero cambiare la strada a tutta l’arte europea, spingendo il grande spagnolo a dire:
“Le maschere non erano come le altre sculture: erano qualcosa di magico, si ergevano contro tutto, contro gli spiriti ignoti e minacciosi. E io continuavo ad ammirare quei feticci… E capii. Anch’io mi ergo contro tutto. Anch’io credo che tutto è sconosciuto, tutto è nemico”.