venerdì, Novembre 22, 2024

Tir di Alberto Fasulo: la recensione

Tir è un film di confine. Un confine di genere, tra documentario e fiction. Un confine di luoghi, attraversati e ripercorsi, fino a perderne la delimitazione. Ma anche espressione di confine tra stasi e movimento, tra attese e aspettative, tra sogno e realtà, tra vita e morte. Tir è tutto e niente. Un film di un frastornante silenzio. Un modo per dar corpo ad una voce silente.

Seppur labile è il confine di genere, il film di Alberto Fasulo è indubbiamente annoverabile in quell’universo che è il “cinema del reale”. Un approccio documentaristico di osservazione partecipante, ma non nel pieno senso del concetto malinowskiano. Una partecipazione che porta ad una efficace resa del punto di vista del protagonista, ma che passa attraverso un intervento attivo dell’autore sul mondo raccontato, tramite quei mezzi mediali propri del filmaker.

Sembrerebbe che tale rappresentazione della realtà debba necessariamente passare attraverso una particolare rielaborazione estetica. Trovare una nuova forma, condensata in quel prodotto finito fruito dal pubblico, e che come fine ultimo abbia il raggiungimento dell’essenza emozionale. Tir ha tutto questo, e ancor di più. Nella sua essenzialità e nel suo rigore nasconde una forza tensiva costantemente prossima alla deflagrazione, ma che resta sopita, in attesa, come il camionista Branko. Tir ci riesce, arriva a quell’essenza dell’emozione, al pubblico in sala. A quello stesso pubblico che consuma quelle mele, quelle patate e quella carne di maiale che il tir di Branko trasporta, e che per quest’ultimo acquistano un valore altro. Nella costruzione narrativa ed estetica di Fasulo, infatti, quei prodotti diventano altro. Ed ecco che il punto di vista del protagonista emerge. Perché quella stessa merce, stipata nel container, assurge a valore simbolico, a riflesso di una condizione esistenziale del camionista, ex insegnate croato costretto a lasciare lavoro, famiglia e casa.

Il riflesso della profilo di Branko si staglia sul finestrino del tir, sovrapponendosi all’elemento all’esterno della cabina di guida: un carico di maiali stipati a forza in un container. È una sovrapposizione di immagini, una sorta di dissolvenza incrociata, che crea una forte costruzione di senso. Un’immagine allegorica che mette in connessione la condizione di Branko con quella del carico suino. Ma è solo il principio di un’immedesimazione sempre più progressiva. «Il capo tiene più al carico di bestiame che alle persone» dice Lucka, il camionista che fa coppia con Branko. Lucka, controparte di Branko, che stufo di quella vita decide di mollare tutto, lasciando al collega un ultimo carico da consegnare: maiali. Una sovrapposizione, un montaggio alternato e il definitivo ingresso nel container dei maiali, mette sempre più in relazione Branko (nomen omen) al branco di maiali. Un emblematico silenzio segue alla consegna del carico animale. Un silenzio di rassegnata accettazione, espressione di solitudine, di abbandono e di interante condanna. I maiali saranno uccisi, mentre Branko ripulisce il tir dal letame, fino a svuotarlo. Vuoto, come il vuoto che lo affligge. Forse come i maiali anche Branko si avvia verso una morte, che sia di un sogno, di una speranza o di un bisogno, poco conta. È pur sempre morte.

Quello di Fasulo è quindi un lavoro di riplasmazione. Un’adozione di codici estetici e narratologici allo scopo di affondare al cuore dell’emozione, ad un’immedesimazione quanto più fedele col punto di vista dell’attore. Soluzioni estetiche ed espressive sono adottate a scandire i momenti tensivi. La libera variazione del suono in presa diretta, accentuato o eliminato del tutto in postproduzione, concorrere alla costruzione di una dimensione più mentale che reale. Un distacco dalle basilari norme documentaristiche, pur restandone nel territorio concettuale. Ma come detto, Tir è un film di confine. Spesso claustrofobico, negli angusti spazi della cabina/prigione dove vivono i personaggi. Una prigione mobile, ma conchiusa in un tragitto impacciante. L’asfissiante luogo dell’abitacolo come metafora di una condizione, come in Dieci di Kiarostami, in cui, non a caso, la suddetta linea di divisione tra cinema sceneggiato e cinema “dal vivo” è altrettanto sottile. Innovazioni di un cinema che deve molto all’agilità del digitale.

Andrea Schiavone
Andrea Schiavone
Andrea Schiavone, appassionato di cinema ha deciso di intraprendere studi universitari in ambito cinematografico. Laureatosi in Arti e Scienze dello Spettacolo alla Sapienza di Roma ed attualmente studente magistrale in Cinema, Televisione e New Media alla IULM di Milano.

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