Sembra un film dell’orrore il ritorno alla regia di Kim Rossi Stuart e non tanto perché sia forzatamente “brutto” e sopra le righe, ma per la progressiva asfissia che si prova ad esser testimoni di un mondo chiuso che collassa su se stesso.
Tommaso non prova alcuna soddisfazione nella relazione con l’altro sesso e non conosce il senso della parola leggerezza, tanto che la percezione di qualsiasi difetto fisico, spesso visibile solo per un eccesso di attenzione ai dettagli, sostituisce l’amore per la fragilità con una mancanza patologica di empatia.
L’unica spinta verso il desiderio è generata dall’assenza, da tutto quello che è irraggiungibile e da quella percezione del femminile che trasforma il corpo in schermo, ovvero luogo di proiezione di un “oggetto” già codificato e visto.
Non c’è nel film di Kim Rossi Stuart una proliferazione di sguardi che spezzi questa normatività, non c’è perché le scelte sono quelle di un racconto irrimediabilmente ombelicale che potrebbe aprirsi alla biforcazione, solo per esasperazione ed eccesso rispetto ai modi di certo cinema italiano.
Metafinzioni a parte, la crisi di Tommaso attore intrattabile e polemico coincide con la sua voglia di provare a mettere in scena il primo film come regista, un insieme di suggestioni oniriche rispetto alle quali nutre seri dubbi.
I nuovi peccati originali del nostro cinema (il grottesco, la dimensione del sogno) insieme a quelli vecchissimi del soggetto dell’enunciazione al centro di opere dal fiato cortissimo, sembrano per un attimo il bersaglio di Rossi Stuart, proprio per il modo in cui il suo stesso film viene spinto forzatamente entro quei margini, dalle sedute di psicoterapia fino al monologo interiore che si mangia tutto, sogni rivelatori inclusi.
Tommaso non strappa un sorriso anche quando cerca di condurci nei luoghi della commedia, basta pensare al momento in cui incontra il primo corpo “resistente” alle sue dinamiche, quello di Sonia, la giovane cameriera di Rieti con cui finalmente ingaggia una lotta vera e propria fino allo scontro fisico; un gioco al massacro che non diverte, a meno di non trovarsi perfettamente a proprio agio con la rappresentazione di corpi che non esprimono affettività né alcuna possibilità di trasformazione; una condizione che attraversa il mondo cognitivo di moltissime persone, non ci sono dubbi, ma che in Tommaso diventa l’alibi per un cinema chiuso, cinico, senza sguardo né possibilità se non quello delle proprie incapacità.
Sonia in questo senso, al di là della solita, logora, rappresentazione di una gioventù irriducibile, è uno schermo capovolto rispetto a quello di Tommaso, o più semplicemente, un’immagine assimilabile alle altre che passano in rassegna nella vita del protagonista, manichino sodomizzato incluso.
Ci si chiede allora se questo sia davvero un film “terminale”, come ha provato a definirlo certa “critica militante” (quasi esclusivamente romana) in posizione fellatio, la stessa postura assunta tendenzialmente da quella di regime ormai sedata dagli uffici stampa, perché lo sguardo di Rossi Stuart non è né personale né tantomeno leggero rispetto a quel cinema che straparla su se stesso, di cui offre una versione gelida e terrificante.
Se sia sufficiente oppure voluto non ci interessa particolarmente, perché nel caso, dopo un film al “limite” o si cambia mestiere, oppure direzione.