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Too Much Johnson di Orson Welles

Capolavoro riscoperto per caso nel 2008, restaurato dalla George Eastman House con il sostegno della National Film Preservation Foundation e della Regione Friuli Venezia Giulia, presentato in prima mondiale a Pordenone nel 2013 durante le Giornate del Cinema Muto nell’edizione definitiva di 66 minuti, Too much Johnson è un caso singolare nella storia del cinema.

Il suo ritorno alla luce a quarant’anni dalla scomparsa delle bobine originali, il mistero dell’itinerario che l’ha portato da Madrid a Pordenone, la sua scoperta nel magazzino di uno spedizioniere dove è rimasto per anni, tutto si tinge quasi di giallo.

Considerato “copia lavoro” incompiuta di un film muto girato da Orson Welles nel 1938, Too much Johnson è molto più di una bozza, materiale di lavoro, copia senza valore.
Più che l’anello mancante di una filmografia mobile, Too Much Johnson è una penna sconosciuta, il tratto imprevisto e imprevedibile, quello che fin da allora un ragazzo di ventitrè anni sapeva sul montaggio, due immagini vicine non sono la loro somma, ma una terza immagine. […]Too Much Johnson non prende neppure in considerazione la possibilità di essere unfinished, neppure come sostituto cubista di quinta teatrale. Al di là della trama o dei finali più o meno aperti, è compiutissimo il tramarsi interno, assoluto anche nelle singole ripetizioni di ciak, concluso anche come sogno di future illimitate versioni. È il Metodo-Arkadin:«There is always a better way».

Così scriveva Ciro Giorgini in un articolo intitolato “Il fragore di una stella”, comparso prima su Film Parlato la rivista fondata da Lorenzo Esposito e in seguito su Il Manifesto del 7 aprile 2015, a pochi giorni dalla sua prematura scomparsa. Giorgini era uno dei massimi esperti italiani del cinema di Welles, che nelle vecchie bobine trovate a Pordenone ha identificato il film.

Girato in 35 mm, con apparecchiature e metodologie canoniche del muto, in omaggio evidente alla slapstick comedy (Mack Sennett e Harold Clayton Lloyd in particolare), con esplicita adesione a sperimentazioni dadaiste e suggestioni da avanguardie europee dei decenni tra le due guerre, è diviso in tre sezioni (prologhi) che dovevano accompagnare la pièce omonima di William Gillette (1894), messa in scena dal Mercury Theater di Welles e Houseman allo Stony Creek Summer Theater in Connecticut.

Canovaccio intricatissimo, l’accompagnamento cinematografico ne avrebbe facilitato la comprensione in un inedito ribaltamento della tradizione. Qui, infatti, sarebbe toccato alle immagini chiarire e accompagnare la complicata recita teatrale.

All’epoca Welles, poco più che ventenne, si occupava essenzialmente di teatro. Una rivisitazione in chiave moderna del Macbeth (Woodoo Macbeth, 1936) era già al suo attivo e la complessa trama della pièce gli forniva l’occasione per un inconsueto incontro fra teatro e cinema.

Comunque Broadway restò un miraggio lontano, la mancanza di un proiettore, le proteste degli attori per il compenso inadeguato e, infine, l’arrivo del colosso Paramount che minacciò grane legali avendo già prodotto la pièce nel 1920, costrinsero Welles ad approdare nel teatrino del Connecticut da cui la sezione cinematografica restò fuori per ragioni di spazio e strumentazione inadatta. La vicenda si concluse così con un sonoro flop.
Accantonata e dimenticata, la pellicola fu infine considerata perduta nell’incendio della villa del regista a Madrid nel 1970.

Fra le ipotesi fiorite intorno alla storia poco chiara dell’incendio, non si sa quanto realmente devastante, sulla sparizione vera o presunta di materiali nel rogo, sul giallo di bobine liquefatte e poi magicamente ricomparse in Italia, suggestiva è quella di Massimiliano Studer che nella puntuale ricostruzione della vicenda (Too much Johnson: l’anello mancante del cinema di Orson Welles, in Forma Cinema, Ottobre 2014), argomenta di un giovanissimo Welles costretto dalla sua stessa bravura ad usare espedienti che oggi chiameremmo “operazioni di marketing”: “Per rendere ancora più stupefacenti i finissimi risultati di estetica filmica concentrati nel Kane, Welles ha sempre dovuto dichiarare che non conosceva il cinema e non lo attirava come forma di espressione artistica.”

Sarebbe stato lo stesso regista, dunque, a far credere alla sua sparizione, Too much Johnson era assolutamente perfetto, pareva girato da un cineasta con lunga esperienza alle spalle, non da un ventitreenne alla sua prima prova, e rivelava un genio così precoce da rendere meno esplosiva la novità e la grandezza incommensurabile di Citizen Kane, girato solo tre anni dopo. Quale che sia la verità, ora sappiamo che in nome di quella che Giorgini definisce “vocazione vulcanica alla pace, mentre tutto il mondo si prepara alla guerra”, Welles girò l’unica commedia della sua vita, e fu capolavoro.

Mediometraggio di poco più di un’ora, seconda esperienza cinematografica dopo gli otto minuti di The Hearts of Age, ha per protagonista un giovanissimo Joseph Cotten, amico del regista fin dagli esordi, in una parte del tutto inedita rispetto ai suoi standard successivi. Mobile, acrobatico, un autentico stuntman in riprese di realismo tale da essere a rischio vita, rivela qualità mimetiche degne dei migliori attori del muto, mentre una grande regia guida tutto lo staff in uno spettacolo che attiva nello spettatore processi di empatia profonda.

Il tono prevalente è quello della farsa e alla carica eversiva del comico Welles affida il compito di disinnescare le situazioni scabrose. Inoltre riduce all’osso la trama di Gillette e aggiunge sequenze di autentica novità, piccole gemme del comico d’autore, come la scena dei cappelli o quella delle suffragette.

Il focus ruota intorno ad Augustus Billings (Joseph Cotten) un avventuriero che si spaccia per un proprietario terriero cubano di nome Johnson. L’intento è far colpo su una donna sposata (Arlene Francis) di cui diverrà l’amante. Dopo la lunga fuga nel secondo prologo, inseguito dal marito di lei (Edgar Barrier), nel terzo prologo tutti i protagonisti si imbarcano per Cuba, dove entra in scena il vero Johnson (Howard L. Smith) e l’inseguimento del marito in cerca dell’amante della moglie finisce con i due dentro una piscina artificiale, mentre moglie e suocera urlano spaventate. Della prevista esplosione del vulcano che avrebbe dovuto chiudere la sarabanda nulla più si saprà.

Questo finale incompiuto e alcuni ciak ripetuti qua e là con straniante effetto surreale sarebbero gli indicatori più evidenti del carattere di “copia lavoro” del film, se la sua specificità non fosse proprio questo essere opera in progress. Il “non finito” è la sua cifra stilistica più intima, appartiene all’architettura del film come presagio manifesto del cinema di Welles.

Avvertiamo nell’ “inconcluso” il riflesso di una condizione esistenziale, il vuoto su cui l’uomo in fuga si affaccia, ripreso in inquadrature sghembe da film noir, l’abisso sul quale rimane per un attimo in bilico, per poi ritrarsene fortunosamente continuando la sua corsa senza meta, in fuga da un nemico che sembra anch’egli fuggire, in un ininterrotto, circolare ribaltamento di ruoli.

Quel continuo ripetersi e annullarsi di situazioni in un prismatico gioco di specchi è funzionale ad un’architettura filmica nata all’insegna della più ampia libertà creativa, che presenta i tratti programmatici di uno stile e di una visione del mondo già pienamente maturi.

Capolavoro non-sense di stampo dadaista nella prima parte, dove la gestualità slapstick si mescola ad accentuazioni drammatiche della mimica facciale con dichiarato effetto esilarante, la punta di diamante è il secondo prologo, fantasmagorica sequenza di inseguimento di Leon Dathis, il marito tradito, in corsa dietro a Billings, l’amante, che cerca scampo nella metropoli tentacolare correndo, inciampando, cadendo, arrampicandosi in funamboliche piroette, nella più autentica tradizione del muto.

Quasi in assenza di gravità sui tetti di Manhattan, in arrampicata libera lungo i grattacieli di Marie Curie Avenue, rotolando fra gli scatoloni del mercato West Washington che sembrano moltiplicarsi come in una parabola biblica, in mezzo al traffico e alla gente fino a piombare nel bel mezzo di una sfilata di suffragette, la corsa dei due è un pezzo di grande cinema in cui rinasce il godimento puro targato Buster Keaton e Harold Lloyd (Preferisco l’ascensore è citato esplicitamente) ma che soprattutto prepara la superba stagione del cinema targato Orson Welles.

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