Un viaggio, il compagno che non hai scelto, gli incontri che ti cambiano: è il meccanismo più classico, quello che struttura Tour de France del giovane regista Rachid Djaïdani, film presentato alla Quinzaine des Réalizateurs dell’ultima edizione del Festival di Cannes e presentato lo scorso 30 ottobre anche a France Odeon 2016
La ‘strana coppia’ formata da Serge, un sempre più brillante Gerard Depardieu, e il giovane rapper Far’Hook (“Sei arabo? Islamico?” “Francese.”), interpretato dal musicista Sadek, sprigiona sullo schermo un’alchimia immediata, capace di attraversare un tema delicato come l’integrazione senza alcuna retorica e con calviniana leggerezza.
Serge, rappresentante di una Francia lontana dai luccichii di Parigi, custodisce nella stazza il peso degli anni e delle delusioni. Il suo unico figlio si è convertito all’Islam, cancellando, con il proprio nome occidentale, ogni residua possibilità di comunicazione con il padre: è un’erosione del sistema degli affetti, quella che viene imputata alla diversità culturale, prima ancora che quello dei valori.
Far’hook abita le periferie o meglio, come tanti ragazzi della sua età, ne è prigioniero, compresso tra le origini sempre più sbiadite verso cui viene costantemente risospinto e un’appartenenza che non conosce lavoro né futuro.
Per sfuggire ad un regolamento di conti particolarmente acerbo Far’Hook accetta di accompagnare Serge nel suo Tour de France, alla ricerca dei paesaggi dipinti dal pittore Claude Joseph Vernet del XVIII; attenzione: XVIII secolo, non arrondissement di Parigi, come gioca una delle gag più riuscite del film.
La forzatura da cui il film prende abbrivio non è un semplice espediente cinematografico: il dialogo nasce dalla condivisione di uno spazio di avvicinamento che la realtà non offre, mentre il viaggio, nel suo rompere gli schemi consuetudinari, crea l’apertura da cui passeranno nuovi sguardi e la trasmissione di vecchi saperi.
Lo stesso Depardieu dichiara di aver scelto di interpretare questo film perché mancava, nel cinema francese, il racconto di un’opportunità per superare l’ignoranza dell’Altro, per trasformare la convivenza necessaria in una possibilità d’amore, di comprensione.
Djaïdani dissemina il film di indizi capaci di ancorare l’attenzione dello spettatore alla riflessione a cui si è chiamati, affinché la narrazione non la diluisca mai completamente, come la cazzuola che Serge utilizza per dipingere il mare, consapevolezza di avere, in fondo, le stesse umili radici degli immigrati che non perde occasione di demonizzare.
Si rifà alla boxe, Djaïdani, per descrivere il suo rapporto con il cinema, definendosi un combattente della settima arte, eppure il suo film emana la dolcezza di chi ha scelto di abbassare la guardia per accogliere.
Un film a cui auguriamo che il viaggio non sia finito, affinché possa trovare anche in Italia la distribuzione che merita.