Home covercinema Tourism di Daisuke Miyazaki: dalla città-riflesso al flanering libero, la recensione.

Tourism di Daisuke Miyazaki: dalla città-riflesso al flanering libero, la recensione.

Daisuke Miyazaki si conferma come uno dei registi giapponesi più interessanti del momento, tra quelli che indagano le forme del linguaggio globalizzato nella relazione delicata e controversa tra dispositivi e nuove generazioni. La recensione di "Tourism"

le opere architettoniche, le mode, persino il tempo atmosferico, sono, all’interno della collettività, ciò che i processi organici, i sintomi della malattia e della salute, sono all’interno di un individuo
(Walter Benjamin – Passages)

I luoghi sono sempre più larghi dall’interno che dall’esterno. Reticoli interlacciati, cavità e improvvise diramazioni da cui la “strada” emerge semplicemente come una cellula. Posseduti dall’ipervisione, ci siamo dimenticati la pratica del camminare come strategia per connettere le differenti possibilità della percezione con tutto quello che ci circonda. Oltre allo sguardo, sono altri i sensi attivabili per sperimentare la qualità materica delle cose e procedere dalla superficie fino ad occupare l’angolo di una prospettiva periferica.
Daisuke Miyazaki, a due anni di distanza da “Yamato (California)“, torna nella piccola cittadina suburbana per ritrovare tre giovani che condividono le stesse ansie dei protagonisti di quel film. I centri commerciali che dominano sul piccolo centro, sono luoghi di lavoro e aggregazione, tanto da rappresentare l’unico orizzonte certo che separa dal futuro i desideri di Nina (Nina Endo) Su (Sumire) e Kenji (Takayuki Yanagi).

Tra l’appartamento condiviso e l’ambiente esterno circostante, Daisuke Miyazaki raccoglie le loro testimonianze, impostando i parametri di un cinema “diretto” e documentale, sottoposto costantemente alle scosse telluriche dei dispositivi mobili.
Questi, al centro del prossimo lavoro del regista giapponese che si intitolerà “Videophobia”, accompagnano i tre giovani durante i pasti o nello spazio di una conversazione, come strumento di verifica delle loro sensazioni.
Quando Nina, grazie ad un concorso online, vincerà due biglietti da impiegare per un viaggio in una località casuale del globo, deciderà di condividere l’occasione insieme a Su.
Dopo aver scartato i luoghi ritenuti più difficili e pericolosi, la scelta cade su Singapore, definita da Kenji sicura come “Disneyland”, per confermare quanto il più informato del trio sia a sua volta condizionato da stereotipie comuni.
Il viaggio, dall’aeroporto fino all’approdo, viene ricombinato dalla pervasività degli smartphone, occhio tecnologico spalancato sul mondo da cui le due ragazze non riescono a separarsi.

Commissionato in prima battuta dal museo di Arte e Scienza di Singapore, “Tourism” non aveva la forma di un vero e proprio lungometraggio, ma era parte dell’installazione chiamata “Specters and Tourists“, allestita a partire dal dicembre 2017. Il budget limitato e i tempi strettissimi avevano imposto al regista giapponese di seguire la prassi del v-cinema, dimensione produttiva che conosce da vicino, nella sua lunga esperienza sul set che l’ha portato ad assistere autori come Kurosawa Kiyoshi, per citarne solo uno tra quelli con cui ha collaborato. Mentre gli spettri della prima parte descrivevano l’ansia e l’isolazionismo nella civiltà tecnologica, dove l’individuo sperimenta il mondo attraverso la proliferazione di interfacce e schermi, il secondo segmento aveva il compito di aprire questa cornice imposta dall’architettura di Google, per raccontare l’esperienza della perdita in una città globalizzata.

Transitato come film autonomo per numerose vetrine internazionali, tra cui il Bucheon International Fantastic Film Festival, “Tourism” non ha perso la qualità esperienziale dell’installazione, favorendo la frammentazione dello sguardo per come viene esperita nella dimensione del viaggio dove la tecnologia è incorporata e a sua volta, incorpora. Tutto questo a scapito di quella forma “logica” del racconto che avrebbe potuto indagare da vicino l’evoluzione psicologica dei personaggi.

Per fortuna, ci sentiamo di dire.

A differenza del razionalismo narrativo con cui una parte della critica statunitense ha affrontato il film, la forza di “Tourism” ci sembra risieda proprio nella sua natura ondivaga e sensoriale, in parte vicina agli obiettivi di certo cinema sperimentale, ma senza mimarne le posture estetizzanti. Il film di Miyazaki rimane molto vicino al disorientamento delle due protagoniste, attraverso i gesti, le reazioni e il diverso adattamento rispetto ad un contesto alieno.

La prima parte è quindi una vertiginosa immersione nelle luci e negli spazi di una città tra metallo e plastica che per la stessa Nina sembra “identica a Tokyo”. La mappatura è quella che indirizza i percorsi lungo i grandi centri commerciali, fino alla contemplazione obbligata del Merlion, simbolo di una storia selettiva che ha cancellato la memoria storica del luogo, per favorire una narrazione centralizzata intorno ad un resort open air con la fisiologia del parco giochi.

Lo sguardo sulla città-mercato non smuove alcuna epifania, favorendo l’innesto tecnologico come unica facoltà scopica possibile, attraverso quel diventare oggetti tra gli oggetti che la pratica del selfie consente. Se l’auto-rispecchiamento è l’incapacità di dialogare con il proprio flusso interiore, questo si manifesta nell’esperienza urbana della megalopoli come messa in abisso della stessa immagine, già vista altrove, sempre identica a se stessa ed infine assimilabile ai percorsi condivisi di esplorazione virtuale. Seguire le indicazioni di Siri e le impostazioni di Google, per Nina e Su equivale a non uscire dal porto sicuro del loro appartamento.

Quando un pranzo in un affollato self service diventa occasione per mostrare la varietà del cibo locale con uno streaming su SnapChat, Miyazaki utilizza la soggettiva riflessa come cornice entro la quale confinare l’esperienza. Simmetrico, ma osservato senza il filtro del dispositivo, l’improvviso balletto hip-hop delle due ragazze sullo sfondo del fiume principale,  accompagnato dalla musica del rapper giapponese Lil’Yukichi.  Il numero, al di là della tenera e divertente fruibilità del siparietto pop, cela il framework e interpreta la stessa logica della condivisione istantanea nello spazio virtuale, per aprire una rottura illogica in quello reale.

Sarà invece un vero e proprio strappo l’improvviso perdersi di vista delle due ragazze, con la scomparsa di Su nel labirinto di un grande mercato di souvenir e la disperazione di Nina che oltre all’amica, ha smarrito anche il cellulare.

Da questo momento in poi “Tourism” cambia il modo di osservare, liberandosi della mediazione tecnologica e facendo emergere una qualità spettrale della città.

Per quanto il rischio dell’apologo edificante e utopista sia dietro l’angolo, la semplicità con cui il film segue Nina nel suo vagare a vuoto, nasconde ad ogni angolo potenzialità positive che possono rovesciarsi in un opposto negativo, come l’incontro con una gentile ragazza del luogo a cui la giovane di Yamato si rivolge in un inglese stentato, chiedendole letteralmente se abbia voglia di “andare in un hotel con lei”.
Quando Nina arriverà nella periferia meno accattivante della città, lontana dalle luci del Merlion-Park e a due passi dalla comunità indiana, l’ospitalità di un ragazzo e della sua famiglia, le consentirà di superare un momento difficile e di condividere il cibo attraverso un rituale quotidiano, collettivo e religioso, completamente sradicato dall’ideologia al potere che regola flussi e comportamenti turistici.

Miyazaki opera un doppio rovesciamento. Il primo è legato al confronto diretto tra l’isolamento delle comunità virtuali, con la sopravvivenza di alcune tracce legate alla tradizione. Il secondo incorpora l’esperienza della città attraverso un punto di vista inconoscibile, ma collocato nel cuore vitale della stessa, secondo quell’allargamento del tessuto urbano dall’interno di cui parlavamo all’inizio. Grazie al nuovo amico, Nina può vedere le luci della città dall’alto di un terrazzo che si estende sul tetto di un condominio, provando per la prima volta un senso di spaesamento e stupore. In quel piccolo spazio circoscritto, una band underground del luogo, regala un concerto clandestino ad una decina di ragazzi, recuperando alcune pratiche cancellate dalla produzione della musica coeva, tra cui l’utilizzo di un eco a nastro, percepito dalla ragazza come uno strano marchingegno proveniente da un tempo parallelo.
Miyazaki abdica raramente alla parola o al dialogo come elemento rivelatore, più interessato alla ricerca di quel silenzio negato dal ritmo quotidiano, sospende il movimento ipercinetico del turismo di massa, spingendo la giovane ragazza giapponese in un flanering libero e ricco di sconfinamenti, che non teme i tempi morti.

Daisuke Miyazaki si conferma come uno dei registi giapponesi più interessanti del momento, tra quelli che indagano le forme del linguaggio globalizzato nella relazione delicata e controversa tra dispositivi e nuove generazioni. “Tourism” rimane vitalmente in bilico tra vocazione sperimentale e un viaggio promozionale che anche in termini contingenti, viene totalmente disatteso. 
Lo stesso utilizzo di due icone della cultura giovanile pop giapponese come Sumire, la giovane figlia di Tadanobu Asano e della stessa Nina Endo, coinvolta come stylist nella produzione del film, conferma la capacità di avvicinarsi ai segni di un mondo, senza attivare un filtro giudicante.  La lieve elegia urbana di Daisuke Miyazaki penetra i recessi della città “brutta” per osservare la vita comune relegata nelle periferie di una grande megalopoli. Lontano anni luce dalla retorica borghese e novecentesca che accomuna amici e nemici dell’overtourism, con un gesto di grande profondità umana e politica, rovescia come un guanto il nostro modo di guardare. 

RASSEGNA PANORAMICA
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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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