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Turner di Mike Leigh: la recensione

The Sun is God!
È l’ultimo grido, soffocato dalla morte, di Joseph Mallord William Turner (1775-1851), il “pittore della luce”, protagonista di un film potente e tenero, affascinante e stratificato, policentrico per la molteplicità di sottotesti ma sempre sostenuto da una ferrea unità interiore.
Con Turner Mike Leigh affronta la biografia d’artista, un genere nel quale spesso si registrano cadute anche eccellenti. L’oleografia è infatti dietro l’angolo, appiattire l’arte o esaltare la vita un rischio fin troppo immanente, pensare l’eterno, l’universale, e coniugarlo con il singolare, il divenire del reale proprio del cinema, un’operazione ardua.

Leigh ne esce trionfante, la sua lotta con una materia opaca, spesso inerte, come può esserlo il retroterra biografico di un artista dal corpo sgraziato, dal carattere ribelle e ispido, dai legami parentali e relazionali ridotti al minimo, che vive tra settecento e ottocento in un’Inghilterra pre-vittoriana sporca e maleodorante, dove fertili prospettive di futuro si scontrano con chiusure retrive, fa pensare ad un tuffo del regista dentro uno di quei drammi umani e atmosferici tipici della pittura di Turner.
Ma come nelle tele del suo pittore prediletto la tensione compositiva si placa nella pennellata sicura e nell’addensarsi dell’atmosfera in masse compatte e cromatismi vigorosi e densi, così lungo le due ore e ventinove minuti del racconto filmico Leigh compone con mano sicura lo scontro/incontro di una personalità fragile e bizzarra, solitaria, contraddittoria e a volte disarmata, con le forme sublimi della sua creazione artistica, guidandoci alla sua scoperta con l’amore del discepolo.

Oggetto del racconto sono gli ultimi venticinque anni di vita dell’artista, interpretato da un performer eccezionale, Timothy Spall.
Il protagonista entra in scena da subito. Corpo atticciato e ballonzolante, si muove fra carrozze e cavalli in una caotica strada di Londra, di ritorno dall’ennesima trasferta en plein air a scoprire l’enigma della natura.

A casa l’aspettano il padre, semplice barbiere di Covent Garden ormai vecchio, ma sempre entusiasta supporter del celebre figlio, per cui miscela colori e inchioda tele per nuovi lavori, e Hanna, la serva umile e devota, amore ancillare per frettolosi e tristi incontri, che ama il suo padrone di un amore muto, mai ripagato.
Gli episodi salienti, le figure importanti, il coro di fondo di collezionisti e artisti, nobili e borghesi, la Londra dei teatri, dei circoli esclusivi, dei ricevimenti a corte, fanno corona alla figura magnetica del pittore, quasi afasica nei suoi grugniti di approvazione o disapprovazione, eppure straordinariamente capace di “parole alate” quando l’amore o un moto profondo dell’animo prendono il sopravvento.
Spiazzante come un orso selvatico che ama la fragranza del dolce miele, Turner è capace d’incantarsi davanti ad una spinetta che suona Beethoven, e se poi si tratta del suo amato Purcell non esita ad intonare con voce roca e incerta la disperazione dell’amor perduto di Didone, When I am laid in earth, lasciando senza parole la timida e graziosa musicista.

Quel brano musicale, solo dieci note e un basso discendente che tocca i margini estremi del dolore, sembra scelto da Leigh come metafora del pittore e del suo mondo, tanto li avvicina il rapporto interno tra luci e ombre, l’equilibrio tra simmetria e asimmetria, materia e spirito, vitali pulsioni dionisiache e lacerazione della morte .
Il ritratto cinematografico dell’artista che Leigh compone scandaglia le ragioni della sua arte e ne coglie il mistero, anche ricorrendo ad una certa libertà di ricostruzione biografica.

L’intento didascalico è secondario, “il processo con cui le immagini e i momenti si accumulano – dichiara il regista – non è certamente narrativo, ma obbedisce ad una precisa struttura architettonica interna, per nulla casuale”.
Avvertiamo in questo una consonanza piena con la poetica di Turner, teso, soprattutto nell’ultima fase della sua vita di artista, a relegare il racconto a puro pretesto.
Organizzare l’incessante fenomenologia della luce liberandola da tutte le scorie terrene fu infatti obiettivo primario, e sempre più evidente divenne la carica innovatrice del suo linguaggio.

Membro della Royal Academy, fama e denaro non gli mancarono, ma rimase sempre sostanzialmente estraneo al suo tempo, guardato spesso come un folle.
I cieli incendiati, le tempeste vorticose, le distese acquee attraversate da tagli trasversali di luce, i bagliori fulminei che inquadrano pescherecci e uomini in equilibrio instabile, tutto tende a perdere peso e massa, lo spazio diventa immenso e si dilata verso il cielo, i valori figurativi della luce diventano i protagonisti esclusivi di questa avventura dello sguardo.

Dick Pope, direttore della fotografia, traduce magistralmente le indicazioni di regia in splendidi tableaux vivants, Gary Yershon, nomination all’Oscar per la colonna sonora originale, fa scelte lontane dal classico repertorio settecentesco, riempie il film di una musicalità tutta novecentesca che dà la misura più coerente con la portata rivoluzionaria dell’arte di Turner.

E’ così che arriva a noi, guidata da una regia di straordinaria intuizione, questa contemplazione inesausta della bellezza, questa limpida e sofferta meditazione sulla luce e sullo spazio.

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