Non è così difficile rintracciare le fonti d’ispirazione che animano i due film girati da Paolo Ruffini, anche perchè se l’esercizio critico dovesse limitarsi a questa operazione di scandaglio, al di là delle intenzioni manifeste di uscire dai parametri imposti dai relitti della commedia nostrale, rimarrebbe davvero ben poco da dire di un cinema dal fiato cortissimo come quello del conduttore televisivo Livornese che dal ’97 cerca in un modo o in un altro di delinearsi un’identità cinematografica.
I frutti migliori Ruffini li ha dati in quello spazio parodico e scellerato di “io doppio”, formula “plagiarista” per la quale dovrebbe forse pagare parte del suo successo non certo agli aventi diritto, ci mancherebbe, ma sicuramente a Riccardo Pangallo, dal quale ha desunto tutto il giochino della replica deformata con la differenza di una maggiore diffusione in un momento storico in cui Mtv gli apriva le porte.
L’imitazione dell’imitazione allora sembra il luogo deputato anche per Ruffini regista che con “Fuga di cervelli” tentava la strada picaresca e sgangherata della commedia Italica rivista attraverso l’irriverenza National Lampoon, dalle origini fino all’evoluzione di quella formula nelle produzioni statunitensi più o meno recenti.
A queste intenzioni si aggiunge una formazione generazionale sviluppata attraverso il cinema di Neri Parenti e quello dei Vanzina, dai quali desume non solo la ripetizione pedissequa del racconto di formazione declinato al maschile, ma anche la struttura episodica delle gag, il frammento post-televisivo, la battuta da portarsi al bar, e quell’aura malinconica che ha dato frutti ben diversi attraverso il cinema dei Nuti, l’ultimo Pieraccioni e Verdone, giusto per uscire dalla toscana.
Con tutti questi ingredienti Ruffini sforna un bel pasticcio, tra l’altro molto meno convincente e “cattivo” rispetto alla furia anarcoide del film precedente, e più spostato verso l’illusione autoriale di una poeticità non allineata che ovviamente non manca di sottolineare con enunciazioni sparatissime.
Eppure, nell’estrema frammentazione del numero, c’è anche posto per qualcosa che funziona, su tutti un’incredibile Chiara Francini, che nel siparietto ambientato all’interno del negozio di scarpe, valorizza la stralunatezza di Ruffini fino alla delirante scopata tra le scatole da scarpe, uno dei momenti migliori di tutto il film.
È pur vero che nel travestimento, forse come tutte le arti imitative quella che in fondo riesce meglio a Ruffini, ci sia lo scarto di una poeticità tutta giocata sul contrasto iperreale (non certo una cosa originale) basta pensare al personaggio di Eros (Gianluca Fubelli), alla festa dello sceicco e agli inseguimenti surreali tra la combriccola di Ruffini e lo psicopatico (Angelo Pintus), ma sono schegge all’interno di un film completamente sfilacciato dove la messa in scena non è mai una zona di scambio vitale tra le suggestioni del racconto e la capacità di smarcarsi dalla traccia narrativa verso la libertà dello sguardo. Per questo, mai come in “tutto molto bello” la lista “critica” dei riferimenti potrebbe avvicinarsi a quella della lavandaia.