È un documentario senza molte ambizioni estetiche quello di Ferdinando Vicentini Orgnani. Un documentario che appare crudo, sporco e spesso sfilacciato, in cui si mischiano immagini di repertorio, riprese fugaci e testimonianze che rimbalzano tra il sud e il nord america. Ma è un lavoro di inchiesta che trova forse proprio in questa sua forma grezza il suo senso più profondo, la forza narrativa dietro cui traspare l’affannosa e perigliosa ricerca dell’autore nelle suggestive terre, spesso dimenticate, della Bolivia.
È con un punto di vista faticosamente distaccato che Orgnani ripercorre queste pagine storiche della politica e della società boliviana. Uno sguardo che cerca di diventare quanto più etnografico, nella ricostruzione di un passaggio memorabile dell’evoluzione sudamericana, quella che in sostanza vide il fondamentale passaggio da un potere politico industriale-bancario a quello “cocalero” di Evo Morales.
Ma chi è veramente Morales? Quante tappe oscure si nascondono dietro la sua inarrestabile e rivoluzionaria ascesa al potere? L’entusiasmo che generò il suo programma politico fu la chiave del suo successo, un programma che si configurava come la più fedele concretizzazione dell’ideologia comunista: la partecipazione alla vita politica degli indigeni, i progetti interculturali e bilingue di integrazione e il superamento classista tra i bianchi e il popolo autoctono della giungla incontaminata. Lo sviluppo, insomma, il “desarollo” boliviano.
Ma lo sviluppo passa soprattutto attraverso fasi distruttive. Dalla rivoluzione politica alla corruzione, fino all’imperdonabile deturpamento delle foreste protette. Ed ecco che il paradosso del governo Morales viene a galla. Il patto con gli indigeni si rompe e quegli stessi uomini che per votarlo percorsero un tragitto a piedi di una settimana dalla giungla alla città ora ne diventano i maggiori contestatori.
È una cultura che sembra vivere di contraddizioni quella boliviana. In cui il valore sacro delle foglie di Coca scandisce ogni rapporto sociale, di fratellanza e di comunicazione interpersonale nel microcosmo della comunità, ma diventa anche l’elemento che segna la negativa reputazione di un governo narcotrafficante. Lo Stato di Morales sembra paradossalmente aver trovato prosperità grazie alle colture di Coca e ai traffici illeciti. Colture che necessitano di nuovi spazi dove prolificare e traffici che richiedono strade più comode da percorrere. Esigenze di espansione, desarollo che finirà col defraudare gli indigeni e la regione dalle sacre riserve protette e incontaminate.
È quasi un dilemma. Progresso e distruzione o stasi e preservazione. L’indagine di Orgnani si muove lungo queste rette parallele, in una produzione che dura sei anni, dal 2008 al 2013, tra gli intralci del governo per l’ottenimento delle documentazioni e il complesso reperimento di fondi. Un lavoro che risente di questi ostacoli e ci appare, nella sua forma finale, spesso inconcludente e prolisso, ricco di contenuti un po’ confusi. Il dunque della questione resta un po’ lì sospeso, indefinito e incerto, proprio come la condizione delle popolazioni indigene. L’auspicabile tono di denuncia si spegne, mitigato da un semplice agglomerarsi di voci disparate, di cui, in sostanza, ci sfugge l’ideologico filo conduttore.