martedì, Novembre 5, 2024

Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza di Roy Andersson: la recensione

Ultimo capitolo di una trilogia introdotta nel 2000 da “Songs from the second floor” e proseguita sette anni dopo con “You, the living”, il nuovo film dello svedese Roy Andersson si serve ancora una volta di una serie di tableaux vivants realizzati tutti in un take, a camera fissa e con un punto di vista che sfrutta l’ampiezza dell’immagine e la profondità di campo. I “quadri” di “Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza” sono 39 segmenti collegati tra di loro da una riflessione sulla condizione umana e da due rappresentanti di commercio specializzati nella vendita di oggetti umoristici e scherzi per un carnasciale deprimente; la missione di Sam e Jonathan è quella di far divertire la gente, ma in realtà con la loro fissità iperreale non faranno altro che evidenziare la fragilità della vita.

Ispirato da una moltitudine di pittori al confine tra realismo ed astrattismo minimale, la geometria delle immagini filmate da Roy Andersson è intellegibile e chiara, con tutti i piani in profondità perfettamente a fuoco, e allo stesso tempo cerca in questa stessa semplificazione degli elementi costitutivi, una via espressionista ed astratta. I riferimenti attraversano i secoli e sono quelli che con un filo rosso collegano la concezione dello spazio nella pittura di Vermeer, Otto Dix, Hopper, i pittori della nuova oggettività e in alcuni casi come per esempio nell’episodio dove compare Carlo XII di svezia, la precisione del dettaglio in campo lungo desunta dalla pittura di Bruegel.

Molto vicino ad un’installazione visuale, il cinema di Roy Andersson crea una connessione tra i personaggi e le figure nello spazio sfruttando una dinamica orizzontale e attivando tutti i piani in profondità con un procedimento che potrebbe ricordare sul piano visivo gli ultimi lavori di Lech Majewski, anche se l’utilizzo del digitale nei film dello Svedese si limita ad uno sfruttamento delle possibilità ottiche e non di quelle legate alla trasformazione CGI.

Il carburante che muove le figure di Andersson è quello di un umorismo raggelante di impronta Beckettiana, un mix di cultura popolare, riferimenti storici, icone della comicità più triviale e una staticità che trasforma la maschera comica in ghigno mentre i tempi della commedia trascolorano in un inesorabile trionfo della morte. Con i volti pallidi di un trucco teatrale di base, tutti i personaggi di “A pigeon…” sono vampiri disgraziati la cui forza vitale è stata succhiata da una realtà disumana; costretti a bevute solitarie, giri di tango senza requie, albergi squallidi, negozi dove non mette più piede un solo cliente, oppure a vendere oggetti che non vuole più nessuno come Sam e Jonathan, per i quali Andersson sembra essersi ispirato alle dinamiche di Laurel & Hardy.

C’è un fascino innegabile nella struttura endogena dei quadretti di Andersson; da una parte la fruizione superficiale della vignetta consente di farsi risucchiare da questi dispositivi inceppati, dove l’orologeria della commedia viene depotenziata lavorando su altre aritmie del tempo, un po’ come nel cinema di Kaurismaki anche se la libertà dell’immagine non è ovviamente la stessa; oltre questa superficie c’è poi tutto un lavoro sulla profondità che consente di esplorare i numerosi livelli dell’immagine, lo spazio tra i corpi, gli eventi sullo sfondo, attivando così una scansione percettiva di tipo contemplativo.

Tutto molto affascinante ma allo stesso tempo terribilmente chiuso, come se si trattasse di una versione estrema e ancora più posturale del cinema di Ulrich Seidl dove la presunta libertà dello sguardo è costretta a muoversi entro uno spazio già organizzato, e ogni entrata, ogni comparsa, ogni movimento e persino il fuori campo sono i tasselli di un puzzle ben progettato.

Alla fine in tutta questa bellezza visiva e nella ricchissima stratificazione culturale operata da Andersson si ha la sensazione che non ci sia niente da vedere, come in una pinacoteca tutto viene predisposto per la fruizione, ed è “cosa” già vista.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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