“Venduto” come un thriller, il nuovo film di Paul Feig è una commedia al femminile totalmente in linea con la sua filmografia e maggiormente sbilanciata dalla parte della distorsione pop.
Osservato dalla prospettiva di una casalinga vedova, divisa tra faccende domestiche e la cura del figlio, sfrutta alcuni cliché dell’immaginario destinato ad un certo tipo di pubblico, per irriderne le dinamiche e la percezione di genere.
Stephanie (Anna Kendrick) occupa il suo tempo libero curando un canale YouTube. La sua attività come vlogger estende lo spazio casalingo attraverso la finestra virtuale, mentre dispensa consigli pratici per mandare avanti la casa, cucinare ottimi dolci ed infine creare una dimensione confidenziale con la sua utenza di riferimento.
In una giornata piovosa davanti all’uscita di scuola, incontrerà Emily (Blake Lively), la madre di un compagno di scuola del figlio.
Agli antipodi rispetto al modello di femminilità incarnato da Stephanie, Emily è una donna in carriera perfetta, dall’immagine iper sessualizzata, immersa nel lusso e incapace di staccarsi da un tenore di vita che rappresenta tutto quello per cui ha lottato. Tra martini london style, confessioni proibite, la cultura musicale francofona YèYè e un rapporto di strisciante servilismo, si delinea la nuova amicizia tra le due donne, sulla quale Feig punta per sviluppare una certa tensione erotica, entro la cornice “rosa” evidenziata per eccesso.
Stephanie è in fondo la spettatrice o la lettrice ideale di una certa letteratura “nera” destinata al pubblico femminile, mentre Emily è perfettamente calata nei panni della madre degenere con pulsioni omicide. Un avvitamento che lungi da essere particolarmente stratificato, costruisce il classico meccanismo metadiscorsivo di rispecchiamenti e rovesciamenti. Tutti i misteri, i delitti, le menzogne, le manipolazioni e i segreti familiari che si svilupperanno da questo momento in poi, sono chiaramente uno sviluppo diretto dell’immaginario finzionale corrente, quello che Stephanie ricerca insieme ai suoi viewers per uscire dal grigiore quotidiano.
Non è certo la credibilità né l’allusione il tono scelto e voluto da Feig, ma anche in un territorio come questo, se non si è imparata la lezione di Wes Craven o quella di John McNaughton, occorre un senso dello spazio, dei tempi del racconto e della superficie che qui collassa su se stesso, senza graffiare particolarmente se non in alcuni momenti di gustoso surrealismo pop.
Il meccanismo è talmente scoperto, plot twists inclusi, da mostrare il fianco nei momenti in cui si dovrebbe smettere di ridere, come nella sequenza in cui i due bambini fanno a pugni, incarnando quindi un dolore che gli adulti non riescono ad esprimere se non con i toni desunti dalla cultura digitale, dai serial televisivi, dalla proliferazione di influencer in rete.
“Un piccolo favore” sembra già completamente inghiottito da quella mediocrità al potere, tanto da risultare totalmente inefficace quando manda a morte le proprie icone, sbarazzandosi del presunto modello negativo, con la leggerezza di un linguaggio interamente assimilato.
Non siamo dalle parti dell’irritante “Amiche di Sangue” di Cory Finley, né totalmente immersi nel “layout” di un ennesimo screen movie; Feig è un formidabile autore di commedie, più onesto nell’avvicinarsi ai tic e alle ossessioni dei suoi personaggi femminili, esasperando le caratteristiche iconiche delle attrici. Riesce in questo senso a sfruttare al meglio l’erotismo sottile e impacciato della Kendrick, mentre elabora un’interessante variazione sull’immagine del personaggio bisessuale, sfrontato e algido, riferendosi ad un immaginario vastissimo, che procede in avanti da Basic Instinct, qui presente ovunque, dal decòr a quel quadro con vagina in primo piano che sarà messo al centro più di una volta, parodie incluse.
Nelle mani di Paul Feig il romanzo di Darcey Bell diventa tutt’altra cosa, un esperimento che avrebbe potuto essere interessante e anche oltraggioso rispetto ad un particolare filone letterario, ma che risulta irrimediabilmente inceppato tra le due polarità senza trovare una strada convincente, sia che si tratti di commedia, di thriller o di messa in abisso di questi stessi elementi nello spazio delicatissimo della parodia.
Tutto viene fortemente esposto in superficie, incluse le citazioni dichiarate da Les Diaboliques di Henri-Georges Clouzot, espediente senza dubbio ricercato e del tutto pertinente rispetto ad un carosello di riferimenti semantici che puntano alla vacuità dei grandi database digitali, sviluppando un sistema narratologico fatto di scarti, brandelli di cultura pop, schegge di un immaginario connettivo che ha sostituito l’esperienza culturale con il frammento indicizzato su YouTube. Basta pensare all’incredibile citazione da After Hours, quando Stephanie si reca nell’atelier di Diana Hyland (Linda Cardellini) per farsi raccontare la genesi del quadro con la vagina in primo piano e a come l’aspetto, la postura e l’esacerbata psicopatia dell’artista sia modellata su quella di Kiki, il personaggio interpretato da Linda Fiorentino nel film di Scorsese.
Molto gustoso e ludico, con una consapevolezza che riesce a prendersi gioco della modalità corrente e letale di intendere la citazione; whodonit svuotato di senso, frammento organizzato digitalmente per tipologie. Peccato che a Feig in questo film manchi il coraggio di rompere la cornice e sfondare gli schermi. Insieme a lui si rimane intrappolati in un limbo poco convincente, che riesce a scatenare la forza anarchica e situazionale della commedia solamente in alcuni momenti. Peccato.