giovedì, Dicembre 19, 2024

Una domenica notte di Giuseppe Marco Albano: la recensione

Antonio Colucci è un regista poco prolifico, divorziato, con un figlio e una compagna. L’unico suo lavoro, un film horror su un licantropo ipocondriaco che fa strage di infermiere,  viene distribuito in VHS solo in Germania. Entusiasta per un nuovo progetto horror, un misto tra L’ultimo uomo sulla Terra con Vincent Price e Mortacci di Sergio Citti, cerca in tutti i modi di reperire i fondi per realizzarlo.

Una domenica notte è un film che racconta un film. Un’efficace riflessione metacinematografica. Una divertente e acuta immagine dei nostri tempi. Il racconto di una crisi, economica ed esistenziale. Perché le due categorie si compenetrano e confondono, trovando forza nei (mica tanto) impliciti rimandi interterstuali, che ne edificano attorno una struttura portante dal forte impatto espressivo.

In una realtà dove sempre più sottile è il confine tra cinema e video, e dove il termine “autore” trova una nuova e più complessa configurazione semantica, l’epopea di Colucci prende piede. Ma, in modo volutamente paradossale, nel raccontare ciò si affonda al cinema più puro tra tutti, quello autoriale. Da Pasolini al cinema cinico di Ciprì e Maresco, fino al più attuale Sorrentino, con una strizzata d’occhio a Fellini, Giuseppe Marco Albano attinge dichiaratamente linguaggi e tematiche, riuscendo a metabolizzare tali fonti di nutrimento per dar vita ad un nuovo stile che, indubbiamente, lo connota tra gli aspiranti eredi del vero cinema italiano, altrimenti condannato al degrado.

Gli esilaranti intermezzi alla Cinico Tv by Ciprì/Maresco armano il film di una chiave interpretativa lampante. Gli individui che si mostrano alla camera, in un’estetica ciprì/mareschina, e raccontano la loro esperienza come comparse per i colossal biblici (Passion, Nativity) ambientati in quei luoghi del materano, rimandano alla filosofia sottesa ai lavori del duo siciliano. Così come infatti quel “cinema del commiato” era atto a sottolineare il vuoto dell’uomo, dall’Arte, dalla Filosofia, da Dio e dall’Anima – lasciando solo il corpo, arido e vacuo, in balia di quella “coazione a coitare” e a nutrirsi – allo stesso modo Albano usa tali codici espressivi per sottolineare il vuoto che dimora nelle coscienze dei personaggi. Il cinismo nasce dalla presa d’atto dell’insensatezza della società, della catastrofe politica e dalla percezione di un’apocalisse già in corso. Ad abitare il mondo restano gli uomini vuoti, come i soggetti di Cinico Tv e come già gli inorganici bambocci di Marco Ferreri. Come il cinismo di Diogene era una reazione al delitto commesso dalla cultura che aveva ucciso il suo figlio migliore (Socrate), così il duo siciliano risponde ad un cinema che ha ucciso i suoi figli migliori (Pasolini). E, si direbbe, Albano ripropone l’approccio nichilista per raccontare la definitiva morte del Cinema – un degrado che forse passa attraverso la democratizzazione mediatica (il bambino prima donna) –.

Se in 8½ la crisi del regista Guido Anselmi era dovuta all’abbondanza di mezzi ma all’assenza di un’idea, Una domenica notte si configura come un contro-8½, lì dove le idee del regista Antonio Colucci abbondano ma i mezzi mancano. Un’attualizzazione quanto mai azzeccata di un classico del cinema.

Ma Albano si concede anche l’autocitazionismo, in un’ottica che fa dei rimandi una compenetrazione intertestuale dall’effetto valorizzante. L’inizio del film, infatti, ricorda l’incipit di Stand by me, cortometraggio vincitore del Nastro D’Argento 2012. Un film che tratta di morte, in modo ironico e surreale. Come di una morte parla anche Una domenica notte, quella del Cinema o, più ottimisticamente, di un certo tipo di cinema.

Sì, perché Antonio Colucci è un rappresentante di quel cinema povero e di qualità, un accolito di quel cinema alla Mario Bava, un cinema ormai defunto e che tiene duro solo tra i nostalgici fruitori di fanzine e di festival occasionali, iper-citato ma improponibile ad una generazione che anela a ben altro, o meglio, che non si spreca nemmeno ad anelare, accontentandosi di quei prodotti al limite del videoclip, a quei nuovi codici espressivi che contaminano il cinema puro, ad un Pip-Pop qualunque (sedicente filmaker).

Ma Una domenica notte è anche una stoccata a quella tortuosa e crudele gerarchia produttiva e alla scorretta e illusoria demagogia politica. Forte critica ad una società assassina. L’unica via che si prospetta, per restare indipendenti e non cedere all’annullamento dei propri principi in cambio di facili guadagni, è mettere in piedi un’attività di crowd funding. Vendere quote alla gente comune, a chi possa ancora aver fiducia nel valore del singolo (come tenta di fare nella realtà Produzioni dal Basso e pochi altri). Ma anche questa speranza verrà disattesa. Perché la gente, quella gente, è ormai parte di quella società. Antonio Colucci è ormai solo, ultimo residuo di un tempo che fu, rottame umano, come i soggetti di Cinico Tv, come i manichini di Ferreri. Persa la sostanza resta solo il corpo. Antonio dà sfogo ai suoi impulsi sessuali con la compagna in un vortice di romanticismo. Ma finito l’atto finisce la passione, e resta il vuoto, il silenzio tra i due e l’incapacità di guardarsi.

Situazioni speculari rafforzano questo senso di vuoto esistenziale di cui è costellata la vita di Colucci. La sparizione del gatto, la fuga della figura paterna dalla famiglia della sorella, l’indefinibile vuoto della coppia che egli spera “si colmerà prima o poi”. Un arcano senso di assenza di antonioniana memoria. Una desertificazione dell’anima che però scaturisce da un concreto contesto ostile, e non dai recessi della psiche. Antonio è un regista, nella più classica definizione del termine. Incapace di adeguarsi ad una nuova estetica. È un uomo che vive nel passato, le lancette dei suoi orologi un’ora indietro, a scandire un tempo che è già passato prima che diventi futuro. Incastrato ormai in un impasse, a nulla gli servirà regolare le lancette, il confronto finale con la sua nemesi lo porterà all’amara presa di coscienza della sua “morte”. Ma Antonio non è una vittima, infondo anche lui ha le sue colpe. “La vita che si è dovuta ricostruire” l’ex moglie contrasta con “la vita che si è scelto” Antonio. Un’inattività ed un’incapacità di adattamento dai risvolti fatali.

Ma il paradosso ritorna, positivo. Un film è stato fatto, in effetti. È il film su un film mai fatto. Un 8½ al contrario, un film sulla sua vita, sulla sua crisi, mMa ancor di più, un film sulla Vita e sulla Crisi. Una comicità non gratuita quella del film di Albano, da caldeggiare come vessillo di un cinema italiano alla riscossa, alla riconquista del suo spazio. Ad oggi, Giuseppe Marco Albano e Sydney Sibilia si prospettano come nuove promesse di un cinema finalmente diverso.

Andrea Schiavone
Andrea Schiavone
Andrea Schiavone, appassionato di cinema ha deciso di intraprendere studi universitari in ambito cinematografico. Laureatosi in Arti e Scienze dello Spettacolo alla Sapienza di Roma ed attualmente studente magistrale in Cinema, Televisione e New Media alla IULM di Milano.

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