Yaron Zilberman ama la musica da camera e il Quartetto n ° 14 in Do diesis minore Opus 131 di Beethoven è quanto di meglio si possa proporre ad un pubblico di amatori.
Pezzo molto impegnativo di 40 minuti, il preferito dal grande Maestro (“Dopo questo, cosa ci resta da scrivere?“) il quartetto si compone di sette movimenti, invece dei canonici quattro, e non prevede pause intermedie. L’impossibilità di riaccordare gli strumenti durante la performance rende molto facili cadute fuori tono, dunque un perfetto accordo tra gli interpreti è condizione indispensabile per la sua esecuzione. Zilberman costruisce a partire da questo assunto tutta la drammaturgia del film. Contiene la storia dentro una circolarità perfetta, apre e chiude con la stessa scena, un concerto del quartetto famoso in una sala prestigiosa di New York, quindi sigilla con un epilogo che scioglie la tensione e lascia il finale aperto.
Peter (Christopher Walken), Robert (Philip Seymour Hoffman), Juliette (Catherine Keener) e Daniel (Mark Ivanir) si avviano al venticinquesimo anno di attività musicale comune quando Peter, violoncellista e leader del quartetto, scopre i primi segni del morbo di Parkinson. La rottura degli equilibri è inevitabile, la caducità è connotato costante dei rapporti umani, ancor più quando si tratta di un rapporto professionale come quello dei musicisti. La perfezione del linguaggio musicale non ammette deroghe e cedimenti, un’ombra è sufficiente per creare fratture abissali.
L’umanità dei quattro musicisti si scontra pertanto con le esigenze della loro arte, fragilità sconosciute vengono a galla creando scontri inevitabili, si aprono scenari su mondi interiori tempestosi e trascorsi molto sofferti.
E’ qui il lato debole del film, nell’eccesso di vissuto, di raccontato. Storie passate fatte balenare ma solo abbozzate, un presente che si va spezzettando mentre incombe la minaccia del nulla, fatto di malattia e morte. Ingredienti troppo forti per una storia sola, soprattutto perché non reggono il confronto con l’energia della musica, che scorre su un binario parallelo sul quale il film si riabilita ampiamente, in una specie di schizofrenia creativa. Un cast di eccezionali interpreti porta comunque a termine il notevole viluppo di passioni con leggerezza, come un buon quartetto d’archi farebbe superando tutti gli ostacoli dell’Opus 131 di Beethoven.
A Late Quartet ha dunque la stessa imprevedibile prevedibilità di un pezzo musicale, che può cadere fragorosamente nelle grinfie di un pessimo interprete o celebrare degnamente la grandezza del suo autore in ottime mani.
Notevole, e certo carta vincente del film, l’attenzione filologica a tutto quanto si riferisca al pensiero musicale. Trattandosi di storia per immagini, inoltre, grande è stata la cura nell’affiancare agli interpreti istruttori che insegnassero il linguaggio corretto del corpo nell’uso dei vari strumenti. L’effetto di naturalezza è completato dai tagli di montaggio e dalle angolazioni di ripresa, modellati sui criteri normalmente adottati per i concerti. Gli interni sono girati nei luoghi newyorchesi della grande musica o nelle case della buona, vecchia borghesia amante di libri e arte, la città offre i suoi esterni per un teatro dell’umanità che riporta ad una gradazione media del vivere, raffinatezza formale e sincero amore del bello si coniugano con eleganza, l’uomo è al centro, con i suoi piccoli drammi, spesso sgangherati, scomposti, ma pur sempre capaci di ricomporsi in quella inesprimibile “capacità della musica di rivolgersi a tutte le sfaccettature dell’essere umano, alla sua parte animale, emotiva, intellettuale e spirituale” (D.Barenboim, La musica sveglia il tempo, 2007).
La colonna sonora di Angelo Badalamenti crea un continuum di buon equilibrio con brani dal quartetto di Beethoven, che chiude lungo i titoli di coda sul settimo movimento, tenendo galvanizzata la platea fino all’ultima nota.