domenica, Dicembre 22, 2024

Una mujer fantástica di Sebastian Lelio – Berlinale 67, Concorso: la recensione

Marina e Orlando sono innamorati e pianificano di passare la vita insieme. Lei lavora come cameriera e adora cantare. Il suo amante, di venti anni piú grande, ha lasciato la precedente famiglia per lei. Una notte, tornati a casa dopo i festeggiamenti per il compleanno di Marina, Orlando diviene improvvisamente pallido ed ha un malore.
All’ospedale, tutto quello che i dottori possono fare è constatare la sua morte.

Gli eventi che seguono saranno veloci e precipitosi: Marina dovrá affrontare gli atteggiamenti inquisitori della polizia e l’astio, ora apertamente manifesto, della famiglia di Orlando. Anagraficamente infatti, Marina é ancora un uomo, nonostante il passaggio da un sesso all’altro sia giá stato avviato, aspetto che il regista cileno lascia fuori campo e accenna solo con alcuni dettagli.

Sebastián Lelio torna in concorso a Berlino quattro anni dopo “Gloria”, film che si interrogava “sull’innamorarsi a quasi sessant’anni, con un matrimonio fallito alle spalle e coi figli ormai grandi”, in una società come quella cilena che tutt’oggi fatica a lasciarsi alle spalle i decenni sotto la dittatura. Quella di Gloria era una risposta alla solitudine o desiderio di mettersi in gioco?
In questo senso “Una mujer fantastica” è un film speculare al precedente di Lelio, mantenendo quell’approccio narrativo della storia minima ed intima, per aprire uno spiraglio sulla grande Storia cilena.
 
Racconti minimi che quindi svelano molto della società di riferimento, la cui mutazione, dopo decenni di regime, sembra non essere effettiva.

Significativo di ció sono i pesanti pregiudizi riservati a Marina dai medici in primis, dalla polizia ed infine dalla famiglia del defunto compagno, individui che incarnano in toto le contraddizioni di una societá borghese che rimane ancorata a valori di facciata: la famiglia, la chiesa, lo stato.

La stessa famiglia di Orlando esercita nei confronti di Marina atteggiamenti intimidatori, arrivando a simulare un sequestro, coprendole il volto con lo scotch: un modo di agire non molto lontano da quello applicato sui dissidenti politici ai tempi di Pinochet.

C’è quindi un eco di un discorso piú politico, ma non cosí marcato e tagliente come nel cinema di Pablo Larrain, qui produttore per Lelio. Il cineasta cileno cerca di bilanciare alcuni elementi del linguaggio realista con una propensione per il simbolismo e l’onirico, rimanendo in una zona di forte incertezza espressiva; forse un autore sopravvalutato troppo in fretta.

Ad esempio, tutto il ricorso al fuori campo e al non detto rischia di diventare un alibi per nascondere una certa incompiutezza, mentre in altri casi, per esempio quelli in cui Marina viene ispezionata dai medici, conserva forza notevole, proprio in virtú della sua semplicitá. Un esempio negativo al contrario é la sequenza in cui Marina rimane in equilibrio contro una violenta folata di vento, momento surreale e onirico che non aggiunge niente a quello che giá sappiamo.  Per Lelió, il volto dell’eroina sofferente del melodramma lirico, quello che emerge nell’aria cantata e incarnata da Marina è forse l’unico segno realmente tangibile di una critica aspra e significativa.

Rachele Pollastrini
Rachele Pollastrini
Rachele Pollastrini è curatrice della sezione corti per il Lucca Film Festival. Scrive di Cinema e Musica

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