“La sera del 21 settembre 1945 io morii”
E’ l’incipit del film, brusco, nessun preambolo, alla “tomba” del titolo fa seguito quel “morii” che inchioda la storia nella dimensione dell’ineluttabile.
Seconda Guerra Mondiale, ultimi mesi, i più tremendi per il Giappone, costretto ad una resa senza condizioni dopo la devastazione del suo territorio da parte degli Stati Uniti, intenti a forzare la sua capitolazione terrorizzando popolazioni inermi di civili con l’utilizzo della forza aerea, vera arma di distruzione di massa, in un’escalation di morte che culminò con Hiroshima e Nagasaki.
Chi pronuncia quelle parole è Seita, un ragazzo di 14 anni che emerge in primo piano dal fondo nero e guarda il pubblico. Giubba militare da balilla nipponico, berretto della guardia imperiale, un gioco di luce gli disegna intorno agli occhi una specie di maschera funebre.
Parte il flashback della breve storia sua e della sorellina Setsuko, 4 anni, vittime innocenti di una guerra che, ormai nei mesi finali, vide la distruzione di più di sessanta città.
Tra la primavera e l’estate di quell’anno, prima del fatidico 6 agosto su Hiroshima, incursioni di bombardieri B-29 distrussero l’80% di Tokyo, Yokohama, Kobe, e storie come quella dei due bambini di Takahata Isao furono la realtà tragica di un popolo senza scampo, chiuso nella morsa del nazionalismo suicida da un lato e della logica della distruzione di massa passata come teoria della “guerra buona” dall’altro.
Classi politiche e capi di Stato Maggiore, apparati di governo e Sua Maestà Imperiale, dal Giappone agli Stati Uniti d’America, tutti furono uniti dalla medesima “scienza esatta persuasa allo sterminio”, finchè rimase ben poco intorno a cui accapigliarsi.
Nel 1988 Takahata tornò alla regia dopo sei anni, ma nel frattempo lo Studio Ghibli era fondato e stava muovendo i suoi primi, importanti passi.
Cosa convinse il regista a risalire così indietro nel tempo ispirandosi a Nosaka Akiyuki, autore di un romanzo semi-autobiografico sulla sua traumatica esperienza di guerra, privo di famiglia, fra difficoltà di ogni tipo a Kobe, semidistrutta dai bombardamenti americani?
Certo l’entusiasmo di Suzuki Toshio, produttore/anima dello Studio Ghibli, fu contagioso se il suo progetto di lanciare La tomba delle lucciole in contemporanea con Totoro il vicino di Miyazaki Hayao venne accettato dai due fondatori e cavalli di razza dello Studio come una sfida troppo intrigante per non essere raccolta.
Due film così diversi tra loro e, soprattutto, così altra cosa da quello che circolava nel mercato dell’animazione giapponese degli anni ottanta, non potevano passare inosservati, e il loro successo, in patria e fuori, fu la consacrazione di due geni creatori di uno stile e di un linguaggio dell’animazione mai visti prima di allora.
Takahata scelse una strada molto ardua, per il tema affrontato e per la necessità di soluzioni formali che il realismo della vicenda narrata gli impose.
Oggi La tomba delle lucciole è a ragione considerato uno dei momenti più alti del cinema mondiale, e non solo di quello di animazione, e il ritardo con cui arriva nelle sale in Italia dove, con l’eccezione del festival Cartoombria del 1995, è stato visibile solo in home video, non è comprensibile.
A parziale spiegazione del suo riapparire in sala crediamo non vada trascurato il fatto che il film, con il suo problematico carico di riflessioni sul tema della storia, della violenza, dell’individuo e del suo destino nel mondo, arriva sugli schermi italiani a due anni di distanza da Si alza il vento di Miyazaki Hayao.
Altro film atipico nella produzione classica dello Studio Ghibli, Si alza il vento sposta l’epopea individuale sulla prospettiva storica, dove l’immaginario non è più esclusivo dominio della fantasia e la lunga storia da raccontare è quella di un paese “annientato” (così fa dire Miyazaki a Giovanni Battista Caproni, conte di Taliedo, personaggio dell’Italia mussoliniana, che il Duce insignì del titolo di conte per i meriti bellici della sua industria aeronautica)
Slogan ufficiale di Si alza il vento era “ Bisogna vivere! “, ma l’abbiamo tutti avvertito agli antipodi da Ponyo e dal suo ” Che bello essere nati!“.
Sempre fedele a quel “vagheggiamento fantastico” e alla leggerezza di immagini e di senso che promana dai suoi film, Miyazaki Hayao ha però parlato esplicitamente del ” vento di un’epoca ” (jidai no kaze), e la sua volontà è stata esplicita nel sottolineare questo intento programmatico, mettendo al centro l’uomo del ventesimo secolo con i suoi sogni e le sue cadute.
E dunque oggi, dopo tanti anni dalla sua nascita, oggi La tomba delle lucciole arriva più che mai attuale e in solido connubio ideale con Si alza il vento.
Nel 1988 l’intento di Takahata fu, sì, di scrivere una dura requisitoria contro la guerra, denunciare i rigurgiti di ideologia imperiale e i revanchismi che certamente serpeggiavano sotto la superficie di un Giappone normalizzato e solidamente avviato verso la sua luminosa crescita economica, e fu certo un doveroso omaggio al popolo degli inermi che aveva dovuto subire tanta violenza.
Sarebbe però riduttivo limitarlo a questo.
Takahata è artista troppo intelligente e raffinato per operazioni così scontate (e per di più fuori tempo massimo).
Come Pioggia Nera (Kuroi Ame) di Imamura Shohei, che nell’’89 sembrò percorrere una strada fin troppo battuta, quella del genbaku bungaku, la “letteratura sulla bomba atomica” che aveva prodotto fiction, documentari e memoriali a non finire, nulla si dice in queste opere che non debba ancora esser detto con forza e il loro messaggio parte dal passato per guardare al futuro.
Le gocce nere di pioggia che si posano dopo i bombardamenti sui due bambini di Takahata e le panoramiche sulle macerie di Kobe, disseminate di mucchi lividi e straziati di cadaveri, tornarono nell’’89 nel film di Imamura, e in entrambi il richiamo al realismo degradato dei quartieri di Tokyo, fotografati dal cinema immediatamente post-bellico di Kurosawa fu forte.
Comune ai due autori fu anche l’attenzione al crollo della solidarietà sociale che condannava le vittime ad una solitudine ancora più dolorosa, e tutto questo era stato già nello sguardo di Kurosawa quando, nel ’47, girava Una meravigliosa domenica (Subarashiki nichiyobi), film neorealista senza esserlo programmaticamente, surreale con una solida presa sulla realtà, una favola vera girata nel Giappone del dopoguerra, in piena ricostruzione morale e materiale.
C’è dunque una visione del mondo e della storia che rimbalza costantemente fra i grandi del cinema nipponico, dipingendo quadri di forte suggestione e arricchendosi ogni volta di istanze nuove.
Quello che premeva a Takahata, nell’’88, era rivolgersi al presente, alle nuove generazioni, con la forza che l’arte sprigiona nell’essere maestra senza prefiggersi di esserlo.
L’impegno artistico e professionale finalizzato a questo scopo si tradusse nella formazione di un gruppo eccezionale di professionisti, da Yoshifumi Kondo che firmò il character design del film e supervisionò le animazioni a Hideaki Anno per le scene con i B-29 americani, ai disegnatori di consolidata fama che continuarono ad operare negli anni con lo Studio Ghibli. Innumerevoli sopralluoghi a Kobe diedero infine alle immagini quella verità cristallina che nella sua trasparenza concorre ad un realismo minuzioso, ma sempre immune da patetismi.
Dai due fratelli emana l’intera gamma di sentimenti che vanno dall’amore reciproco alla paura per quello che sta accadendo. Il loro bisogno di aiuto, l’assoluta deprivazione della loro condizione di orfani senza nessuno al mondo, costretti a scappare da continue incursioni aeree, rifiutati dall’egoismo o dall’indifferenza di una società regredita all’età della pietra, esprimono una situazione di sofferenza che non chiede mai commiserazione.
Quello che risalta è la loro purezza innocente e disarmata e la spinta a farcela, a credere, anche quando non resta più nulla e la morte diventerà la prossima scadenza.
Momenti di forte cromatismo drammatico, bombe e incendi che tingono le scene con l’intero repertorio dei rossi e dei neri e la visione iperrealista di sangue, ferite e cadaveri al limite della sopportabilità, si stemperano continuamente in quadri di dolcezza bucolica che colorano il mondo delle lucciole, del verde e delle acque, là dove Seita e Setsuko si rifugiano nel tentativo di sopravvivere in un mondo che evidentemente non è fatto per loro.
La luce delle lucciole ottiene effetti di opalescenza mai visti prima, i notturni sono di straordinario impatto visivo e i colori del paesaggio, marino e campestre, brillano come invasi dalla luce reale del sole. Dunque cosa vuol trasmettere Takahata ricorrendo a contrasti così forti e mettendo in scena, a distanza tanto ravvicinata, abissi di orrore e momenti di elegiaca leggerezza? Seita e Setsuko fuggono dalla realtà per un istintivo bisogno di difesa e sopravvivenza o il loro è l’approdo favolistico nei territori del sogno, là dove nulla può più nuocere?
Crediamo che coesistano entrambe le motivazioni e che sia affidato a loro il superamento del confine tra verità e favola. Per Setsuko che scava una tomba per i piccoli insetti dalla vita troppo breve e chiede a Seita: “Perché le lucciole muoiono così presto?” non c’è risposta. La speranza è svanita, la guerra è perduta, la famiglia dispersa. L’incipit del film non era stato avaro di notizie affidando alla prima scena la morte di stenti di Seita nella stazione di Sannomiya, mentre rimbalzava su tutte le bocche la notizia dell’arrivo degli americani e i passanti non degnavano di uno sguardo quel popolo di homeless appoggiati alle pareti o stesi a terra. Sullo skyline della moderna Kobe, scintillante di luci e grattacieli, guardata dai due fratelli ripresi di spalle, riuniti dopo la morte e circondati da una nuvola di lucciole, La tomba delle lucciole riprende definitivamente il suo statuto di favola.