Jacek ama l’heavy metal, la sua fidanzata e il suo cane. La sua famiglia e i parrocchiani del suo paesino lo trovano un tipo bizzarro e divertente. Jacek lavora presso il cantiere edile di quella che dovrebbe diventare la statua di Cristo più alta del mondo. Dopo che un grave incidente lo sfigura completamente, tutti gli occhi vengono puntati su di lui mentre si sottopone al primo trapianto facciale del Paese.
Volti scuri all’alba. Un assembramento davanti a un edificio. Un centro per l’impiego? Appena si aprono le porte, scatta la stampede in mutande. Tutti costretti a spogliarsi per lanciarsi come belve tra le corsie e azzuffarsi nel nome dei televisori scontati. Benvenuti nel capitalismo.
Twarz significa faccia, e Szumowska — insieme all’abituale collaboratore Michał Englert — realizza un film di facce, su quanto conti la facciata, sulla superficialità di un Paese, la Polonia, che pare governato dall’idiozia. Due i volti cruciali nell’economia del racconto: quello del protagonista Jacek e il muso enorme del Cristo di Świebodzin, la statua polacca eretta in mezzo al nulla che nel 2010 ha battuto il record di Rio de Janeiro.
Storia vera, così com’è vero un altro record che la Polonia si è appuntata al petto: il primo trapianto facciale, di cui ha beneficiato Grzegorz Galasiński nel 2013. Un’altra vita (Mug – Twarz) prende spunto da questi due eventi e li fonde nella storia di Jacek, sfigurato da un incidente mentre lavora al volto della statua.
Jacek è un diverso salvato dalla bellezza. Sebbene il suo stile di vita metallaro entri in collisione con i valori della società rurale nel sud del Paese, tanto che al suo passaggio i vecchi si fanno il segno della croce e i bambini urlano Satanista!, Jacek è felice. Ha un lavoro, è fidanzato con Dagmara (l’ipnotica Małgorzata Gorol), non è ricco ma si sente libero. È uno dei pochi fortunati ad aver arraffato il televisore sottocosto.
Ma dopo l’operazione le cose cambiano, anche perché lo Stato non copre tutte le spese. Il nuovo Jacek, da principe azzurro metallaro a innocuo mostro di provincia, diventa un peso per la famiglia. La madre arriva a chiamare un esorcista. Dagmara non ne vuole più sapere.
Girato come una favola grottesca, Twarz assesta un cazzotto durissimo ai pilastri della società polacca. Lo strapotere della chiesa, la subalternità culturale al consumismo, i veleni insiti nella famiglia tradizionale, il razzismo feroce: tutto questo viene messo in evidenza, in croce, alla berlina. Un esempio? La barzelletta raccontata a tavola durante la cena di Natale. “Un musulmano, un ebreo e un nero si buttano da un palazzo. Chi vince?” “La società”.
Dal punto di vista tecnico spicca la fotografia di Englert, che ci restituisce fin dalla prima scena la percezione del mondo di Jacek operato. Lo fa mettendo a fuoco solo una porzione d’inquadratura — anche se si tratta di oggetti equidistanti dall’obiettivo — e cambiando spesso focus nel medesimo piano. Il trucco a cura di Waldemar Pokromski è eccezionale.
Szumowska realizza con Twarz uno dei suoi film migliori. Da “Ciało” (2015) mutua l’idea di un incipit surreale e pressoché autonomo, e rispetto a “W imię…” (2013) la critica sociale — soprattutto all’ipocrisia della chiesa — risulta molto più acuminata. “Elles” (2011) appartiene al passato: ora la regista affronta il proprio Paese senza filtri. La composizione del quadro si rifà alla pittura romantica polacca, e la scena che unisce un ballo sfrenato a ritmo di “disco polo” con una cavalcata da fiaba ha un impatto impressionante. L’umorismo caustico non regge fino alle ultime sequenze, ma la pellicola ha comunque molte frecce al proprio arco, e il fatto che si tratti di una produzione polacca al 100% sembra smentire la tesi che nel Paese della Madonna nera viga solo l’idiozia.
Lo abbiamo chiesto anche a Małgorzata Szumowska e al suo collaboratore Michał Englert
Pani Szumowska, il film unisce due eventi reali: la costruzione della statua del Cristo Re a Świebodzin e il primo trapianto di faccia a livello mondiale, di cui ha beneficiato Grzegorz Galasiński. Lo ha incontrato? Il suo vissuto ha fornito degli spunti per la sceneggiatura?
MS: Certo, l’abbiamo incontrato. Non ha ispirato il film ma ci ha fatto capire l’atteggiamento di una persona che vive un’esperienza del genere. Inoltre, il suo nuovo volto ci ha guidato nell’ideazione del trucco. Gli abbiamo chiesto alcune informazioni, però la nostra storia è molto diversa.
ME: È vero comunque che i media si sono interessati moltissimo al caso, perché la popolazione polacca va fiera di questo primato. Parlare con lui ci ha aiutato a comprendere il lungo periodo di recupero post-operatorio.
Anche Grzegorz ha avuto problemi economici dopo l’operazione?
MS: Sì, è rimasto in ospedale per più di un anno e la mutua statale polacca, detta ‘soz’, non funziona molto bene. Volevamo sottolinearlo.
ME: Inoltre non erano preparati a un evento del genere.
Il tono del film è quello di una favola dark. C’è un legame a livello narrativo tra Twarz e un’altra recente fiaba filmica polacca, “Córki dancingu” (“The Lure”, 2015) di Agnieszka Smoczyńska?
MS: No, credo che i due film siano diversi, ma sono contenta che ci siano registe polacche come Agnieszka che fanno cose davvero notevoli.
Rispetto a “Ciało” (“Body”, 2015), Twarz ripropone un incipit surreale quasi staccato dal resto del film, ma se collegato al finale sembra lanciare un’invettiva chiara contro un Paese, o possiamo dire in generale una società, governata dall’imbecillità. Era il vostro intento?
ME: Sì, anche se non in maniera così netta. È tipico della società polacca avere conflitti al proprio interno. Facciamo un gran casino poi quando le donne scendono in piazza ci addormentiamo. [N.d.a. il riferimento è alla ‘protesta nera’ del 2016 contro il governo e le politiche contrarie all’aborto]
È interessante nella lettura del film non solo lo humour nero, ma anche il fatto che sia stato interamente finanziato e prodotto in Polonia. Quindi non è l’invettiva del filmmaker esule che se la prede col proprio Paese girando altrove.
MS: Confermo: il film è interamente polacco. Si può fare.
Questo significa che non esiste una censura in Polonia? In Twarz la chiesa è trattata molto male, e ricordo il film di Agnieszka Holland dell’anno scorso (“Spoor”), anch’esso polacco, in cui si appicca fuoco a un luogo di culto cattolico.
MS: Al momento è così, per il futuro non posso assicurare nulla. Da appena due mesi c’è un nuovo capo del Polski Instytut Sztuki Filmowej [N.d.a. Radosław Śmigulski, che ha sostituito Magdalena Sroka], quindi è impossibile sapere cosa farà. C’è la volontà da parte del governo [N.d.a. del partito ultraconservatore PiS] di creare un cinema nazionale, stanno stanziando fondi affinché escano film morbidi con la storia polacca. Non si sa ancora se prevedono di lasciare spazio a film come i nostri.
Non è la prima volta che lavorate insieme alla sceneggiatura, e Michał funge anche da direttore della fotografia. Come si è evoluta la vostra collaborazione?
ME: È rimasta sempre la stessa. Partiamo da un’idea, facciamo delle ricerche, tutto si svolge senza problemi e abbastanza in fretta. Siamo cresciuti insieme artisticamente: lavoriamo in maniera onesta, spontanea. Anche se possiamo divergere su alcuni aspetti.
Panie Englert, una domanda tecnica. Il film colpisce per il motivo opposto ad alcune scene di “Citizen Kane” dominate dalla profondità di campo: lei sceglie invece di mettere a fuoco solo un pezzetto di immagine, per poi spostarsi rapidamente verso altre aree dell’inquadratura. Questo per restituirci, fin dall’inizio, il mondo come lo vede Jacek operato. Come ci è riuscito?
ME: Uso delle vecchie lenti. La tecnica è chiamata “tilt-shift” e ricorda la vecchia camera obscura [N.d.r. Sulla tecnica tilt-shift e sul fuoco selettivo ne abbiamo parlato raccontadovi “L’Autre Continent” di Romain Cogitore]. È del tutto manuale. Un lavoro immane oltre che una scelta radicale e rischiosa, perché bisogna guidare lo sguardo dello spettatore in ogni momento.
IE: Dziękuję bardzo!