Jason Blum è ossessionato dai dispositivi di riproduzione dell’immagine. Buona parte dei film con marchio Blumhouse ereditano dal cinema degli anni ottanta alcune riflessioni sulla mutazione dello sguardo in relazione al rapporto quotidiano con la tecnologia. Se in alcuni titoli questi stimoli si fermano al livello di un recupero nostalgico, tra VHS e catodi fuori sintonia, più di una volta la superficie citazionista viene scalfita da un occhio vicino al nostro, capace di abitare l’angoscia del presente.
È il caso di Sinister, il film di Scott Derrickson che mette in relazione l’immagine analogica con quella digitale evidenziando uno scarto cognitivo traumatico e raccontandone le trasformazioni attraverso la persistenza della violenza e la disgregazione del nucleo famigliare. Suggestioni simili attraversano La notte del giudizio di James De Monaco, film “assediato” dai sistemi di video-sorveglianza, diaframma ottico tra l’interno e l’esterno; Oculus dove l’immagine video è l’innesco di una continua messa in abisso identitaria; e ovviamente tutti i film della serie Paranormal activity che giocano sull’ambiguità statutaria dell’immagine documentale arenandosi spesso nella rappresentazione convenzionale di quella soggettiva. L’occhio digitale è al centro di Eye Candy, il serial prodotto da Blum per Mtv e lo sarà nella dramedy generazionale Jem and the Holograms così come nel nuovo film di M. Night Shyamalan, The Visit, che già dal trailer sembra una versione crudele di una fiaba dei Grimm frammentata dallo sguardo connettivo dei nuovi dispositivi mobili.
Con Unfriended, il regista di origini russe Levan Gabriadze sembra prender le mosse da quel cinema, sopratutto orientale, che nei primi anni zero si era interrogato sul nostro modo di interpretare il reale attraverso il filtro delle nuove tecnologie, estremizzando alcuni tentativi più o meno recenti come Chatroom di Hideo Nakata, Suicide Room di Jan Komasa e il bellissimo Wasted on the Young di Ben C. Lucas, finalmente al lavoro con un altro film sulla visione virtuale tratto da un romanzo di Kelley Eskridge e intitolato Otherlife.
Gabriadze sceglie una via radicale e immersiva sviluppando il suo film a partire dalla soggettiva ad altezza desktop di Blaire (Shelley Hennig) il cui “vedersi” è quello delle finestre connettive, delle sessioni aperte sui social network e delle video conversazioni su Skype.
Persino l’animazione del logo Universal che introduce il film fa parte dello stesso flusso di dati, mentre si sfalda come se fosse l’immagine difettosa di un video scaricato via torrent, estetica glitch sulla quale Unfriended insiste moltissimo fino a giustificare la presenza extrasensoriale che disturba la chat con gli amici di Blaire attraverso il comportamento anomalo di un dato corrotto.
Più del Cyberbullismo che sta alla base del fragile collante narrativo, Gabriadze sembra interessato a restituirci il girare a vuoto ipnotico e compulsivo della prassi connettiva. I corpi non sono visibili, solo immagini trasmesse dalle linee digitali asimmetriche, schermate conversazionali, playlist su iTunes come sostitutivo della colonna sonora extradiegetica, l’esperienza individuale che soccombe alla persistenza degli schermi.
La vendetta del simulacro virtuale associato alla suicida Laura (Heather Sossaman), si identifica sempre di più con il corto circuito degli stessi mezzi di condivisione sociale, tanto che Gabriadze forza il meccanismo dello slasher in una sorta di parodia seriale dove la mattanza dei partecipanti alla chat viene mostrata senza mai staccarsi dalla distanza raggelante dell’informazione condivisa. Anche la pagina web che Blair consulta per capire come liberarsi dallo spirito dei morti sembra il residuo cache di un vecchio sito degli anni novanta oppure la proliferazione non verificata della spazzatura cospirazionista.
Unfriended è un esperimento freddissimo, dove non c’è spazio per l’approfondimento delle motivazioni, per l’affetto nei confronti dei personaggi o per la vicinanza ai gesti, tutto è inghiottito da una vertigine di dati senza controllo, un virus che attiva stampanti a distanza oppure genera pop-up impazziti come il banner sulle cam girls disponibili, tra le quali compare la stessa Blaire in una screen capture del gioco erotico condiviso con il fidanzato all’inizio del film.
Se allora questo appiattimento del film alla semantica della rete appare come intuizione estrema e interessante nel rappresentare la dissoluzione del corpo in una ricombinazione digitale di informazioni, l’approccio sin troppo esplicitamente teorico cancella totalmente quel contrasto vitale tra esperienza e annichilimento che caratterizzava un film come All About Lily Chou-Chou, elegia negativa sospesa tra caratteri ascii e corpo, che riusciva a raccontare il doloroso passaggio verso una dimensione post identitaria.
Come in molti titoli della Blumhouse, il tentativo di avvicinarsi alle nostre paure sembra ad un passo, ma si arresta un momento prima di trasformarsi da schermo ad esperienza.